Mi vota, non mi vota. La difficile fioritura della Margherita nel campo largo della sinistra italiana Il centrosinistra avrebbe bisogno

di una forza politica pragmatica e riformista capace di bilanciare gli estremismi interni, ma manca un leader in grado di creare e consolidare un movimento del genere

24.9.2024 Mario Lavia, linkiesta.it lettura2’

La Margherita si sciolse formalmente nella calda giornata del 16 giugno 2012 in una burocratica riunione, ma di fatto aveva cessato di vivere quattro anni prima, nel 2008, quando confluì nel nuovo Partito democratico. Dunque fa un po’ impressione che se ne riparli sedici anni dopo come di una suggestione o addirittura di una necessità: eppure il tema c’è. Sui giornali, soprattutto. Nello scenario politico non è che vi siano chissà quali movimenti, resi difficili da una oggettiva situazione di penuria di personaggi e possibili leader.

Ieri sul Giornale Augusto Minzolini scriveva perciò della ricerca di un papa straniero – anche qui, quanto se ne parlò nella Seconda Repubblica! – per guidare una forza schierata nel centrosinistra in grado di bilanciare la parte sinistra della coalizione, diciamo la piccola intesa Conte-Fratoianni, appunto una nouvelle vague margheritesca come quella di Francesco Rutelli, Arturo Parisi, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Franco Marini e tanti altri che sotto l’egida di Romano Prodi faceva il contrappunto pressoché quotidiano ai Ds: era il famoso competition is competition.

Lo schema è replicabile? In qualche modo è quello a cui pensa Matteo Renzi che cerca appunto di traghettare Italia viva, senza i dissidenti terzopolisti, dentro il campo largo proprio con l’intenzione di esprimere una vocazione di governo che evidentemente difetta ai sinistri del campo largo. Il suo però è un tentativo quasi disperato, ostracizzato dagli altri partiti della coalizione: e obiettivamente non può essere Renzi il leader di una eventuale Margherita bis.

Una forza siffatta, che avesse l’ambizione di raggiungere le due cifre come la Margherita originale, sarebbe molto utile a chi nel Pd lavora davvero per governare il Paese e non per vivacchiare di rendita all’opposizione testimoniando radicalismi a gettone.

L’altra grande discriminante sulla quale un partito margheritiano dovrebbe essere la politica estera a partire dall’aggressione della Russia all’Ucraina. Come osservava ieri Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, ci vorrebbe uno strumento capace di ingaggiare una seria battaglia ideale e politica contro «gli Adoratori del diavolo e gli atei devoti», due componenti molto forti che concorrono a isolare l’Italia dal dovere morale di schierarsi dalla parte degli oppressi (nonché dalle grandi democrazie occidentali).

Superata dunque la fase del terzopolismo equidistante dai due poli, anche se Carlo Calenda e Luigi Marattin insistono, secondo molti si tratterebbe ora di capire se è possibile quest’altra operazione: ma chi potrebbe guidarla? Sempre Minzolini butta là due nomi, due meridionali (anche se per il centrosinistra persiste un grande problema di rapporto con il nord produttivo): quelli di Antonio Decaro e di Vincenzo De Luca.

Ma non si vede perché il primo dovrebbe abbandonare il Pd, partito di cui un domani potrebbe essere il leader (e peraltro, se il discrimine deve essere l’Ucraina, non è sfuggito che egli ha votato contro l’uso delle armi abilitate a colpire i siti russi); quanto a De Luca, non esattamente uno zelenskiano, è difficile che molli la battaglia per un terzo mandato in Campania, battaglia che dovrebbe vincere. Vedremo. Ma la sensazione è che una cosa in teoria così semplice appare davvero difficile a farsi. Specie se manca un leader.

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