Pensioni: la vera storia della riforma Fornero tra realtà, veleni e propaganda
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La Riforma Fornero è stata oggetto di dure e assurde critiche, soprattutto dalla Lega di Matteo Salvini, che ha alimentato la propaganda contro di essa.
9 Settembre 2024, 7:44 | di *Giuliano Cazzola | 0 First.online.info
Argomenti:
1-Pensioni: la vera storia della riforma Fornero tra realtà, veleni e propaganda
2-Il veleno della propaganda leghista
3-La questione degli esodati
4-Sanatorie e salvaguardie
5-I risparmi erosi dalla propaganda
6-Le donne, le più penalizzate
7-Il costo delle manomissioni
Ma era davvero come diceva il capo della Lega? Ecco come è andata tra propaganda politica e verità trascurate
Pensioni: la vera storia della riforma Fornero tra realtà, veleni e propaganda
C’è un giudice chiamato tempo che mette ciascuno al posto che gli è dovuto. O come canta Francesco De Gregori: ‘’La storia dà torto e dà ragione’’. Nei giorni scorsi, Mattia Feltri, nella sua rubrica su La Stampa (‘’Buongiorno’’) ha messo le mani nella melma degli insulti che uno ‘’statista per caso’’ come Matteo Salvini ha rivolto – da 12 anni a questa parte – ad Elsa Fornero per la riforma delle pensioni che porta il suo nome quando era ministro del Lavoro del governo Monti.
Il veleno della propaganda leghista
Feltri ha fatto una raccolta accurata dell’immondezzaio propagandistico leghista, mettendone in evidenza l’odio, la maleducazione e soprattutto la disonestà. La riforma Fornero era contenuta in un paio di articoli del decreto Salva Italia, presentato dal governo Monti nel suo insieme e convertito in legge con un voto bulgaro del Parlamento. Attribuirne le conseguenze ad una sola persona come se Fornero fosse stata una specie di Tenente colonnello Antonio Tejero Molina, il militare che entrò alle Cortes di Madrid, minacciando i deputati a mano armata. La Lega organizzò anche delle manifestazioni sotto la casa natale di Fornero in un paesino del Piemonte. Ma il vero scandalo fu un altro: la propaganda di bassa lega del Capitano fece breccia nell’opinione pubblica. Venne accettata acriticamente che la riforma avesse sequestrato gli italiani impedendo loro di andare in pensione prima di aver maturato l’età attribuita a Matusalemme.
I media, in generale, pensarono che questo fosse l’approccio giusto per fare notizia e si accodarono.
La questione degli esodati
La prima telenovela fu quella dei c.d. esodati, nello specifico, persone che avevano accettato una extra liquidazione per lasciare il lavoro, sia in conseguenza di un accordo sindacale o mediante una trattativa privata. In questi casi gli interessati lamentavano un disallineamento tra il limite di età pensionabile (o di anzianità richiesta per l’anticipo) previsto al momento dell’esodo effettivo e l’incremento di questi requisiti nell’ambito della riforma. Veniva a crearsi un periodo ‘’scoperto’’ dove il soggetto non percepiva né la pensione né lo stipendio. Il problema era reale e il governo se ne occupò già nella conversione del decreto ‘’mille proroghe’’ con la prima delle nove sanatorie. Ma l’individuazione degli aventi diritto era complessa. Dove l’esodo incentivato era avvenuto tramite accordo sindacale a seguito di processi di ristrutturazione, ai soggetti interessati si arrivava in modo trasparente e corretto; nei casi di accordo tra le parti era più difficile. Vi erano poi soggetti che avevano perso il lavoro senza benefici incentivanti e avevano visto allontanarsi il limite della pensione.
I talk show televisivi per mesi ospitarono legioni di persone che lamentavano la loro miserevole sorte, come se fossero stati privati di diritti acquisiti (come andare in pensione all’età pensionabile previgente). A nessuno di questi – se ben ricordo- fu chiesto a quanto ammontava l’extra- liquidazione. Ovvero se corrispondesse solamente all’importo della contribuzione volontaria o consentisse un tot di reddito disponibile. In ogni caso l’errore di previsione venne riconosciuto. Il fatto è che la furono ritenuti ‘’esodati’’ anche persone che si trovavano in altre condizioni.
Sanatorie e salvaguardie
Si verificò quindi una singolare rincorsa che portò, oltre alla prima, ad altre sette sanatorie (poi divenute nove), istituendo un fondo specifico che avrebbe dovuto riversare gli eventuali risparmi di ogni misura di salvaguardia nel fondo stesso, in aggiunta ad ulteriori finanziamenti per riconoscere la deroga ad altre situazioni. Come avvertiva un Focus dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) del 2016, redatto quindi dopo la 7° salvaguardia: ‘’Se la sequenza degli interventi di salvaguardia dovesse continuare emergerebbe con sempre maggiore chiarezza il progressivo cambiamento di obiettivo di queste misure: non un esonero indirizzato in maniera specifica ai lavoratori che si trovano in difficoltà economica negli anni tra la cessazione dell’attività e la percezione della prima pensione a causa delle modifiche introdotte dalla riforma Fornero (cioè gli esodati in senso stretto), ma una soluzione per mettere al riparo platee più ampie e non necessariamente, o non tutte, danneggiate in maniera diretta dalla riforma, utilizzando le salvaguardie come surrogato di politiche passive del lavoro o di altri istituti di welfare oggi sottodimensionati o assenti’’.
Così, una fattispecie, pompata oltre misure dai media televisivi, ha contribuito a creare un clima critico nei confronti della riforma del 2011, depotenziando anche l’entità dei risparmi.
I risparmi erosi dalla propaganda
Sempre l’UPB nel Focus citato fece notare che l’INPS aveva stimato in quasi 88 miliardi i risparmi di spesa ottenibili grazie alla riforma Fornero sul decennio 2012-2021. Di questi risparmi le sette salvaguardie fino a quel momento, nella loro ultima programmazione di spesa, erodevano circa il 13 per cento, dato utile per verificare in quale misura le stesse salvaguardie stanno interagendo con l’obiettivo originario della riforma Fornero di rallentare la dinamica della spesa. Conti più aggiornati – fino all’ottavo intervento, indicano in 200mila i soggetti salvaguardati e in circa 12miliardi i minori risparmi. Tanti ‘’esodati’’ che non erano riusciti ad entrare nelle salvaguardie avrebbero potuto avvalersi prima dell’Ape sociale, poi anche di quota 100. Ma poter rientrare nelle regole pre-riforma era certamente più vantaggioso, sia per quanto riguarda l’età pensionabile di vecchiaia sia i requisiti per il trattamento di anzianità.
Le donne, le più penalizzate
Nessuno ha mai raccontato le verità sulla Riforma Fornero. Chi ha pagato un conto salato sono state le lavoratrici, in conseguenza di un processo già avviato prima della riforma del 2011: la parificazione dell’età pensionabile di vecchiaia delle donne a quella degli uomini. Sulla base della precedente normativa il processo di omogeneizzazione (erano 5 gli anni di differenza da 60 a 65; in più, essendo in corso l’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita, l’obiettivo da raggiungere si spostava in avanti). L’unificazione era già stata raggiunta a marce forzate nel pubblico impiego. Nei settori privati avrebbe dovuto completarsi nel 2024; la riforma Fornero ne anticipò la conclusione al 2018. Così, mentre per gli uomini l’età effettiva alla decorrenza è aumentata di qualche, per le donne è cresciuta di almeno 3 anni.
Il fatto si spiega nella pratica effettiva, perché nel caso delle lavoratrici, in generale, non c’è via di scampo: sono di gran lunga le maggiori utenti del trattamento di vecchiaia perché – a differenza degli uomini – non sono in grado nel privato di accumulare l’anzianità richiesta per i trattamenti anticipati e pertanto finiscono sul percorso della vecchiaia dove, per quanto riguarda i contributi versati, bastano 20 anni, a 67 anni di età. Una donna lavora in media in Italia 28 anni contro i 37 circa di un uomo. Eppure, se seguiamo il dibattito degli ultimi anni, le lamentele e gli interventi effettuati hanno sempre tutelato nella misura del possibile, il pensionamento anticipato/anzianità, ovvero, nei settori privati, il trattamento effettivo riservato ai maschi, residenti al Nord, ovvero alla componente forte del mercato del lavoro (nel pubblico impiego la situazione è diversa), dove è entrata presto ed è rimasta a lungo in via stabile e continuativa ed è stata in grado di arrivare alla soglia del pensionamento a prescindere dal requisito anagrafico poco più che sessantenne (nel 2024, 61,7 anni).
Il costo delle manomissioni
Basti pensare che tutte le manomissioni e le alternative effettuate nei 12 anni in cui è in vigore la riforma Fornero, il legislatore si è preoccupato solo del pensionamento anticipato (e quindi di chi poteva usufruirne). Degli esodati abbiamo già parlato. Si è partiti quasi subito con l’abolizione del simbolico disincentivo economico per chi andava in anticipo prima dei 62 anni. Poi, l’Ape sociale, i precoci/quarantunisti, i lavoratori in condizioni di disagio, quota 100, il blocco del pensionamento anticipato a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne, hanno sempre pestato l’acqua nel mortaio del pensionamento anticipato.
Alle lavoratrici, finché è durata, è rimasta Opzione donna, che è sempre stata una via d’uscita di nicchia e penalizzata sul piano economico (la sola, finora, nell’orizzonte pensionistico). Quota 41 sarebbe figlia della medesima logica maschilista, ritagliata sul profilo dei baby boomers ma applicata a generazioni che nulla hanno a che fare con le caratteristiche di quelle precedenti. Tutto questo lavorio ha consentito a 900mila lavoratori di sottrarsi alle nuove regole e ha mandato in fumo 48 miliardi dei 88 che si sarebbero risparmiati a regime. Dal 1° gennaio dell’anno prossimo si vedrà ripartire un po’ ammaccato e claudicante il percorso della riforma del 2011. A Salvini è toccata la sorte dei ‘’pifferi di montagna’’.
*Giuliano Cazzola
Giuslavorista. Ha ricoperto importanti incarichi sindacali nella Cgil e ricoperto ruoli di vertice al ministero del Lavoro e quale presidente dei collegi dei sindaci di Inps e Inpdap. Per quasi un trentennio, fino ai primi anni novanta, ha ricoperto incarichi di rilievo nella Cgil. Negli anni '90 lascia il sindacato per passare alla politica. Eletto deputato nella XVI Legislatura è stato vice presidente della Commissione Lavoro e relatore di importanti provvedimenti legislativi. Ha insegnato diritto del Lavoro all'Università di Bologna e di Uni eCampus. Saggista, commentatore, collabora con varie testate e ha scritto una ventina di libri.
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