Policentrismo urbano La città della prossimità felice, secondo Carlos Moreno
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Uno sforzo collettivo per generare una nuova economia locale in cui la partecipazione dal basso – a differenza di molti casi di attualità – non deve mai mancare
Ilaria Ferraresi 14.8.2024 linkiesta.it lettura6’
L’urbanista franco-colombiano, inventore del modello della Città dei quindici minuti, ritiene sempre più importante la creazione di «aree multiuso con uffici, abitazioni, negozi, servizi per la cultura e lo sport». Uno sforzo collettivo per generare una nuova economia locale in cui la partecipazione dal basso – a differenza di molti casi di attualità – non deve mai mancare
Nel 2016, Carlos Moreno, direttore scientifico della cattedra in Imprenditorialità, territorio e innovazione della Business school della Sorbona, formula il modello della Città dei quindici minuti. Semplificando, l’idea è questa: più vicino si vive ai servizi essenziali e migliore sarà la qualità della vita dei cittadini. Inoltre, più le distanze da percorrere saranno brevi – appunto entro il quarto d’ora di tempo – e minore sarà l’impatto che le città e le persone avranno sul Pianeta.
Moreno non è il primo a formulare una critica contro il modo in cui le città sono state progettate e costruite a partire dal secondo dopoguerra. Già nel 1960 in “La morte e la vita delle grandi città americane” Jane Jacobs sosteneva che si stava affermando un modello incentrato sul possesso dell’automobile. Il risultato erano ambienti urbani clusterizzati in cui da una parte c’erano i quartieri residenziali e dall’altra quelli dedicati all’economia e al lavoro.
La Città dei quindici minuti si è consolidata negli anni della pandemia da Covid-19, quando le persone avevano esigenze particolari a livello di spostamento e lo smart working si stava affermando. È stata sperimentata a Parigi, Barcellona e, fuori dai confini europei, a Melbourne in Australia. Intorno al concetto sono nate persino teorie negazioniste. All’inizio del 2024 Carlos Moreno ha pubblicato in Italia “La città dei 15 minuti. Per una cultura urbana democratica” (add editore), di cui potete leggere un estratto qui. Per l’occasione gli abbiamo fatto qualche domanda, cercando di sciogliere i dubbi intorno al modello e di capire come si adatterà nel futuro.
Come si inserisce la città dei quindici minuti nel mondo di oggi e come pensa che possa evolversi negli anni a venire?
«Oggi parliamo di città della prossimità, una prossimità che io definisco felice. Il modello ha assunto un ruolo importante nel costruire una forma urbana policentrica, cioè decentrata e capace di offrire numerosi servizi ovunque. Per il futuro mira a originare non solo una città a brevi distanze, ma anche a costituire una nuova economia locale. E credo che questo aspetto stia diventando sempre più centrale. Stanno nascendo nuovi modelli per incoraggiare all’interno di uno stesso edificio o quartiere un mix di utilizzi».
Lei e il suo team nell’applicare la Città dei quindici minuti su Parigi avete ricevuto il sostegno della sindaca Anne Hidalgo. Pensa che questa visione, per essere applicata, debba ottenere il coinvolgimento delle amministrazioni locali o può anche assumere la forma di un movimento dal basso?
«Al fine di ottenere la trasformazione di tutta la città ed evitare la gentrificazione, il concetto deve essere parte di una politica cittadina e, quindi, l’azione deve partire dall’amministrazione locale. Il fatto che si tratti di un’iniziativa pubblica fa sì che le risorse siano applicate ovunque e non solo in alcuni luoghi. Tuttavia affinché abbia successo, si deve fare affidamento sui cittadini. Ecco perché il bilancio partecipativo è importante, perché permette loro di proporre e votare nuovi progetti. Ma è fondamentale anche coinvolgere il settore economico: come accennavo prima, invece di creare edifici monouso dobbiamo sviluppare nuovi modelli economici per creare nell’area urbana zone di attività che non siano solo dedicate allo svolgimento dell’attività economica o esclusivamente residenziali, ma aree multiuso in cui vi siano uffici, abitazioni, negozi, servizi per la cultura e lo sport. È uno sforzo collettivo».
Si può dire che il centro di Parigi sia ormai a quindici minuti. Nelle banlieue, però, la situazione è ben diversa: qual è l’elemento chiave per rendere una periferia a quindici minuti?
«La volontà politica. Il problema di Parigi rispetto alla periferia è che il sindaco di Parigi non è lo stesso della periferia. Ci sono centotrenta comuni con centotrenta sindaci differenti. La città di Parigi con questi centotrenta comuni forma la “métropole du Grand Paris”. All’interno di questo gruppo, ci sono alcuni sindaci che vorrebbero sperimentare la città dei quindici minuti e lo stanno facendo, altri invece che sono contrari. La volontà politica delle amministrazioni comunali alla periferia di Parigi sulla Città dei quindici minuti è frammentata e questa è la principale difficoltà».
Come possiamo inserire i piccoli centri, talvolta ignorati, in questo discorso?
«I piccoli centri urbani non sono affatto ignorati. Arkadiusz Ptak, il sindaco di Pleszew, una città polacca di circa diciassettemila abitanti, da quattro anni sta applicando il modello. Ma anche in Francia si sta sperimentando la città dei quindici minuti su centri abitati di dimensioni minori, come a Saint-Hilaire-de-Brethmas, vicino ad Avignone. Inoltre con la United Cities and Local Government (Uclg), il network C40 Cities e Un-Habitat abbiamo istituito il Global observatory of sustainable proximities, grazie al quale ora siamo a conoscenza di un gran numero di esempi di città di piccole e medie dimensioni in cui il concetto viene applicato».
Un altro problema è il consumo di suolo. Una maggiore vicinanza spesso significa una maggiore densità edilizia. Ma nell’epoca del cambiamento climatico, una maggiore densità del costruito e quindi un maggiore consumo di suolo non possono essere la soluzione. Come possiamo conciliare questi due aspetti?
«Non si tratta di costruire di più, ma di riutilizzare gli edifici che già ci sono e trasformarli, mescolando usi e servizi diversi. A Parigi l’ex edificio del ministero della Difesa in rue Saint-Dominique, ora è un quartiere con duecentocinquanta alloggi, una scuola, un centro sportivo, negozi e aree verdi. Mi riferisco a quello che oggi è l’îlot Saint-Germain. E non è l’unico esempio a Parigi. Il libro “Conservare, adattare e trasmettere” pubblicato dal Pavillon de l’Arsenal nel 2022, ne raccoglie oltre quaranta. Un vecchio ospedale, un’ex caserma militare o un grande magazzino sono diventati tutti nuovi quartieri multiuso».
Il trasporto pubblico gratuito potrebbe essere la via per un modello urbano policentrico veramente efficiente?
«Il trasporto pubblico è molto importante per ridurre l’uso di automobili individuali. È fondamentale per avere una città interconnessa. La gratuità dei trasporti rientra invece in un discorso più complesso. Sicuramente può essere d’aiuto, ma può anche spingere chi di norma usa la bicicletta a utilizzare i mezzi di trasporto senza venire necessariamente ad influire sul comportamento di chi si muove in auto. In più c’è un altro elemento di difficoltà: se il trasporto pubblico è gratuito, chi lavora lontano da dove vive non ha scuse, perché i mezzi di trasporto sono gratuiti. Noi invece vogliamo lottare contro le lunghe distanze ed evitare che la mobilità diventi obbligatoria. La gratuità del trasporto pubblico quindi non è sempre un elemento positivo. Deve essere adattata al contesto di ogni città».
Crede in una città in cui l’automobile non sarà davvero più necessaria?
«L’auto privata non è necessaria nelle aree urbane ad alta densità e, se la si usa, è per lo stretto necessario. Non vogliamo un’auto parcheggiata per strada tutto il giorno e ci sono molte città nel mondo che si stanno muovendo affinché le auto non siano parcheggiate sempre negli spazi pubblici. Quindi sì, credo in questo tipo di città, ma è necessario un cambiamento di mentalità perché oggi le auto vengono utilizzate per lo più per tragitti molto brevi, che potrebbero essere fatti in altro modo. Purtroppo, nel mondo di oggi, è più una questione di status sociale. All’auto è associata l’idea di libertà. Per cui se la tocchiamo, ci viene detto: “Stai attentando alla mia libertà”. Ma invece non è una questione di libertà individuale, ma di rispetto dello spazio pubblico. In più, in un momento in cui la ricerca ha dimostrato che le città producono anidride carbonica, ma anche polveri sottili che sono fonte di malattie, è una questione di salute».
Perché, secondo lei, è nato il negazionismo della città dei quindici minuti?
«Il negazionismo non crede nella scienza. Per i negazionisti il cambiamento climatico non esiste. Perciò per loro la città dei quindici minuti è una misura liberticida. Credono che vogliamo vietargli di usare l’auto o che vogliamo costringerli a vivere all’interno del loro quartiere. In verità vogliamo solo creare più servizi e attività economiche per tutti. Non abbiamo mai chiesto alle persone di farsi un passaporto elettronico, né abbiamo mai impiantato loro un chip sotto la pelle per controllarne gli spostamenti. Averroè, un filosofo andaluso del XIIᵉ secolo, diceva: “L’ignoranza genera paura, la paura genera l’odio e l’odio genera violenza. Questa è l’equazione”».