Interviste riformiste. Sergio Fabbrini: “Referendum diventati strumento dei populisti. In Italia i riformisti dovrebbero operare nei partiti più grandi”
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Il professore ordinario di Scienza Politica ammonisce: “Le riforme di sistema devono essere consensuali, solo così si possono stabilizzare. La priorità non è rispondere ai propri elettori, ma migliorare il sistema”
Luca Sablone — 13.8. 2024, ilriformista.it lettura5’
L’Italia è diventata «più moderna e più aperta» grazie un’azione riformista che, all’interno dei diversi partiti, dall’1 gennaio 1948 ha prodotto «importanti riforme». Eppure il riformismo è ancora minoritario nel nostro paese. Un problema che, spiega Sergio Fabbrini, riguarda tutte le realtà democratiche a capitalismo avanzato: «Più le società sono sviluppate e più tendono a essere condizionate da potenti e diffusi gruppi d’interesse che hanno tratto benefici da quello sviluppo». Ma proprio per il loro peso ridotto – aggiunge il professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e Intesa Sanpaolo Chair on European Governance alla Luiss Guido Carli – i riformisti «dovrebbero operare all’interno dei partiti più grandi». Ricordando che la riforma deve restare lontana dalla politicizzazione, altrimenti viene percepita «come uno strumento della lotta tra partiti» piuttosto che «come un miglioramento del sistema».
Si fa presto a dire cambiamento. Perché i riformisti in Italia falliscono puntualmente l’appuntamento con la storia?
«Io non direi che i riformisti italiani abbiano sempre fallito. Se si assume lo sguardo lungo, si vede che dall’1 gennaio 1948 importanti riforme sono state introdotte nel nostro paese, così da renderlo più moderno e più aperto. Ciò è stato dovuto all’azione di riformisti (cattolici, socialisti, liberali, comunisti), con diverse ideologie o visioni politiche, operanti dall’interno dei diversi partiti. Naturalmente è vero anche ciò che lei dice, ovvero che importanti tentativi di riforma sono falliti. Non solamente sul piano costituzionale, ma anche su quello economico e sociale (basta pensare all’assenza di competizione in molti settori economici)».
Perché il riformismo italiano appare sempre minoritario, estraneo all’opinione pubblica che non segue strettamente la politica?
«Il riformismo è minoritario non solamente in Italia, ma in tutti i paesi democratici a capitalismo avanzato. Come avevano spiegato Alfred Hirschman e Mancur Olson, più le società sono sviluppate e più tendono a essere condizionate da potenti e diffusi gruppi d’interesse che hanno tratto benefici da quello sviluppo. Anche sul piano delle predisposizioni cognitive, in quelle società la conservazione è più forte del cambiamento (anche perché non mancano le cose buone da conservare). Non solo in Italia, i riformisti sono costretti a nuotare come i salmoni che risalgono la corrente per depositare le loro uova».
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In effetti lo spazio per i riformisti c’è, ma non viene occupato. Basta pensare all’opportunità sprecata dall’ex Terzo Polo a giugno. Perché secondo lei?
«Io distinguerei tra il riformismo e i riformisti. Il riformismo riflette una cultura del cambiamento che non è fine a sé stessa. Il riformismo interviene per modificare pezzi di assetti istituzionali e sociali che producono ingiustizie, inefficienze, chiusure. Riformare non è mai una questione di principio, come se fosse un metodo alternativo alla rivoluzione, che va però nella stessa direzione di quest’ultima. Se si rimane nell’orizzonte della democrazia liberale, la riforma si impone per migliorare la qualità di quest’ultima, non già per superarla. Per questo motivo, i riformisti debbono operare come chirurghi, sapendo che vi sono parti del corpo che vanno preservate».
Una grande alleanza riformista, nonostante i personalismi che continuano a mandare all’aria ogni progetto riformista, è ancora possibile?
«Se è plausibile ciò che ho detto, ovvero che la predisposizione alla riforma è minoritaria nelle nostre società, difficilmente il riformismo potrebbe diventare l’ideologia di supporto di un singolo partito politico. Il fallimento postbellico del partito di Giustizia e Libertà è un esempio di tale difficoltà, un fallimento nascosto dietro una visione etica quasi elitaria della politica. Proprio perché sono minoritari, i riformisti dovrebbero operare all’interno dei partiti più grandi, cercando di convincerli a sostenere le riforme che sono necessarie. E promuovendo convergenze tra di loro. Ciò richiede pazienza e determinazione. Fuori dai partiti c’è solamente la testimonianza».
Infatti anche nel centrodestra, con sfumature diverse, vi sono tentativi di riformismo. È possibile?
«Certo che è possibile, proprio perché nessuno può rivendicare il monopolio del riformismo. Le riforme che contano, e che rimangono, sono quelle sostenute da forze politiche diverse, dalla destra e dalla sinistra. Se vengono politicizzate, allora vengono percepite come uno strumento della lotta tra partiti, non già come un miglioramento del sistema in quanto tale. Ed è ciò che sta avvenendo con le riforme sia del premierato che del regionalismo differenziato».
Cosa intende? Le riforme sono necessariamente politicizzate.
«Occorre anche in questo caso distinguere. Vi sono riforme “minori” che qualsiasi governo ha cercato e cerca di promuovere per rispondere alle aspettative delle proprie constituencies elettorali. Si tratta di riforme che non cambiano la logica del sistema. Come sono invece le riforme “maggiori”, come la riforma della costituzione o degli assetti degli apparati pubblici. Se nelle prime possono emergere vincitori e vinti, questo non deve avvenire nelle seconde, se si vuole che esse si realizzino. L’errore dell’attuale governo è che persegue la riforma per rispondere ai propri elettori, non per migliorare il sistema. Un errore fatto anche dai governi precedenti».
Come si fa a stabilire quali sono le riforme necessarie e quali no?
«Se consideriamo le riforme sistemiche, allora queste ultime debbono essere commisurate all’esigenza di rendere il nostro paese nelle condizioni migliori per agire nel contesto dell’interdipendenza europea. Dobbiamo quindi adottare una logica europea sulle riforme. Invece di dire “ce lo chiede l’Europa”, dovremmo noi stabilire cosa riformare per agire in Europa. L’interdipendenza europea è la condizione in cui dobbiamo agire, per scelta e per necessità, perché essa ha garantito lo sviluppo, la democrazia e la pacificazione nel nostro Continente. Eppure questa visione europea sulle riforme è completamente assente tra i nostri leader politici. Nessuno di loro, ma proprio nessuno, ha giustificato o criticato la riforma costituzione dell’attuale governo sulla base di considerazioni o di prospettive europee».
Secondo lei quali sarebbero?
«In un’Europa che ha acquisito un forte carattere intergovernativo, il rafforzamento e la stabilità del governo sono necessarie, se si vuole promuovere politiche per noi rilevanti. Lo stesso discorso vale per il regionalismo differenziato, necessario se si vuole che le nostre regioni possano agire efficacemente nel sistema multilivello europeo. Per questo motivo occorrerebbe andare verso riforme condivise, senza trasformare in feticcio partigiano gli specifici accorgimenti decisi dal governo (come l’elezione diretta del premier o il lungo elenco delle materie su cui le regioni possono rivendicare la competenza). La stabilità del governo e la forza del premier possono essere conseguite in forme diverse, così come è evidente che tra le 23 materie di competenza regionale previste dal progetto governativo di regionalismo differenziato non poche possono essere escluse».
Insomma, le riforme di sistema debbono essere consensuali.
«Esatto. Solamente così si possono stabilizzare. E, soprattutto, possono essere implementate senza la necessità di ricorrere a referendum, dato che non disporranno mai della maggioranza dei 2/3 del Parlamento per essere approvate. I referendum sono diventati uno strumento utile ai populisti (di destra e di sinistra) piuttosto che ai riformisti. E l’Italia che vuole agire in Europa non può più permettersi la bocciatura di una proposta di riforma dopo l’altra. È possibile, questa volta, rallentare il treno prima che esca dai binari?».
Luca Sablone