I riformisti diventati contro-riformisti. Marco Demarco: “Autonomia è riforma di sinistra, chi si oppone sa di mentire. Il paradosso è che sono i conservatori a farle”

A colloquio con l’editorialista del Corriere della Sera che affi da al Riformista la sua personale delusione verso una sinistra impegnata più nel sabotare che a proporre riforme per il paese

Aldo Torchiaro — 7.8. 2024 iliformista.it lettura4’

Marco Demarco, editorialista del Corriere della Sera, fondatore del Corriere del Mezzogiorno e già vice direttore de L’Unità, ha diretto tra l’altro la Scuola di giornalismo del Suor Orsola Benincasa. Al Riformista affida il suo sfogo verso una sinistra irriconoscibile, impegnata più a impantanare le riforme (degli altri) che a lavorare per farne.

L’autonomia differenziata può essere un’opportunità, può dare una scossa al Mezzogiorno?

«Non ho il minimo dubbio: è un’opportunità. E lo è ancora di più se si calcolano le conseguenze, dal punto di vista del principio di legalità, delle polemiche di questi giorni. Dal punto di vista politico-amministrativo è sicuramente un’opportunità. Dal punto di vista politico-istituzionale sono molto preoccupato per ciò che può succedere. Perché le motivazioni con cui si attacca questa riforma sono tanto gravi quanto infondate. E cioè: si dà per scontato che nella costituzione possano esserci principi rimovibili per convenienza. Si può dare per scontato la definizione di Costituzione come anacronistica o ‘incostituzionale’. Si arriva a dire che questa legge non ha nessun fondamento. E che non ha leggitimità, malgrado sia stata votata e dopo un lungo lavoro di preparazione, con circa 60 audizioni alla Camera e forse altrettante al Senato».

La definiscono un pasticcio, un’avventura legislativa…

«È una legge, questa sull’Autonomia differenziata, prudenziale rispetto alla stessa Costituzione. La Costituzione può essere applicata al capitolo dell’autonomia senza tutta questa rete di protezione che la legge stessa introduce. Tanto è vero che con il governo Gentiloni si passò direttamente alle intese Stato-regioni senza avere una legge quadro che potesse arrotondare un po’ le asperità».

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Il Sud ha bisogno di scosse, di incentivi… Questa riforma sarebbe una buona occasione?

«Sì, certo. E non è un’occasione da prendere o lasciare. O da prendere tutta e tutta insieme. La puoi prendere per la parte per cui tu, Sud, ti senti portato a fare meglio dello Stato. E poiché il Sud fa costantemente riferimento alla scarsa attenzione che riceve dallo Stato, se in alcune materie ritieni di poter fare meglio dello Stato, perché non devi farlo? E peggio ancora: perché devi impedire ad altri di farlo, quando per la legge ci si impegna a non recare danno a chi rimane fuori dal questo processo? Opporsi con una richiesta referendaria di abrogazione mi pare una cosa assolutamente poco auspicabile».

È un abdicare rispetto a una funzione che invece deve essere riformatrice.

«Sì ma la sinistra che ora cavalca il referendum anti-autonomista è tutta dentro alla storia dell’autonomia federalista».

Tutto nasce nel 2001, con la riforma del titolo V?

«No. Molto prima. Il governatore Guido Fanti, primo presidente dell’Emilia Romagna, nel 1975 propose una macro-regione del Nord che aveva esattamente i compiti di cui si sta parlando. Si chiamava “Lega del Po” ed era un coordinamento tra le regioni che si attestano sul Po (Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia-Romagna) voluto dal Partito Comunista Italiano per avere più potere contrattuale verso il governo centrale. Miglio, l’ideologo della prima Lega di Umberto Bossi, dirà le stesse cose nel 1993. La sinistra è dentro questo processo. E non arriva per caso alla legge del 2001, in cui il governo Amato premette per l’approvazione di una riforma in senso federalista. Qualcuno dice che doveva essere un favore alle Lega, per sgonfiarla e istituzionalizzarla. Forse, ma in quel caso l’obiettivo è fallito. I leghisti volevano di più…».

Si è detto che la sinistra non ci credeva davvero, che si trattava solo di sminare, depotenziare la bomba leghista allora pronta a esplodere…

«Non riesco a pensare tanto male di quel gruppo dirigente che allora c’era, a sinistra, da dedurne che abbiamo provato a fare un passo così avventato per mero opportunismo politico. Stiamo parlando di D’Alema, Bassanini, Rutelli… Non voglio e non posso credere che fosse solo tatticismo, l’idea di riformare il titolo V della Costituzione».

Venendo in epoca più recente, fino a un anno fa si ritrovano discorsi di Bonaccini a sostegno dell’autonomia differenziata.

«Appunto. E quindi c’è un fronte politico, ideologico se vogliamo. Che provocherà gravi danni».

Danni che si estendono anche ai riformisti. Il referendum ha unito anche Renzi e Calenda…

«E anche questo è deprimente. Perché i riformisti, mi sembra di poter dire, sono ormai diventati contro-riformisti. Con un paradosso: sono i conservatori a fare le riforme, mentre la sinistra riformista cerca di cancellarle. Si adopera per ripristinare nella maggior parte dei casi lo status quo ante. Essere riformisti dovrebbe significare una cosa precisa, e cioè tutto il contrario di partecipare a cartelli referendari per abrogare le riforme. Ma per capire la coerenza e a consistenza delle cose, bisogna guardare a quello che succede sui territori…».

Di quali territori parla?

«Prendiamo una regione-chiave, la Basilicata. La maggioranza di governo della Basilicata include i centristi, che ora sono contrari all’autonomia. In Basilicata avrebbero potuto far saltare il tavolo e votare contro l’autonomia per la richiesta di referendum. E invece quelli di Italia Viva, i renziani, non hanno dato segni di vita : non erano presenti al voto. Mentre gli azionisti, la massima azione che hanno messo in campo è stata astenersi. Segno che quella riforma non rappresenta poi davvero un pericolo per la democrazia, se basta cambiare regione e accordi di maggioranza per trovare i centristi su altre posizioni».

Cosa risponde a chi solleva il tema dell’incognita del finanziamento dei Lep?

«La sinistra non era arrivata a lambire questa riforma per opportunismo, ma perché i Lep sono la leva della coesione del Paese. Valorizzano le cose da fare. Per dirla con Cassese, la riforma sarebbe «un fuoco che arde sotto alla sedia del decisore politico». Li spinge a finanziare i Lep. Che si dica «Non ci sono soldi» mi sembra illogico. Non ci sono soldi finché non si ha evidenza dei Lep. Ed è una riforma, quella dei parametri delle Prestazioni essenziali che nessun governo di centrosinistra dal 2009 (anno del federalismo fiscale) ad oggi ha voluto introdurre. Nessun governo partecipato dal Pd negli ultimi quindici anni ha sentito il bisogno di metterci mano, e appena qualcuno tenta una riforma si grida al pericolo democratico. Ridicolo, se non andassero presi sul serio»

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