L'intervista. Il fantasma del voto anticipato, Bettini: “Teniamoci pronti. Renzi non vuol essere crocefisso al suo passato.

E una nuova Margherita può partire dal 10% Goffredo Bettini, il kingmaker della sinistra prima romana, poi nazionale, ha vissuto una prima parte della vita nel Pci, una seconda nel Pd.

Aldo Torchiaro — 26 Luglio 2024 ilriformista.it lettura 6’

Sempre circondato da alcune amicizie – tra vita politica e vita privata – alle quali ha dedicato il suo ultimo libro, Attraversamenti, uscito con PaperFirst. Secondo qualcuno, Bettini è il vero federatore del centrosinistra. Ha tenuto i rapporti con Conte quando Letta ha posto il veto. Era stato il primo a chiedere il passo indietro a Renzi (e lui si è detto disposto a farlo). Ha mantenuto sempre il dialogo con Articolo1 e con i cattolici. È sotto sotto, come sanno benissimo nel Pd, il vero tessitore del campo largo. Forse ne è anche l’ideatore: il termine “campo” lo ha pronunciato la prima volta nel 2010.

Bettini, vede le elezioni anticipate o è solo una suggestione per facilitare la narrazione dell’unità necessaria, a sinistra?

«Non so rispondere con certezza. Metto in fila alcuni dati di fatto. Il governo è debole, colpito, per molti aspetti screditato. Ma la Meloni è coriacea, mantiene il suo consenso e non va mai presa sottogamba. Inoltre, l’alternativa cresce nell’animo degli italiani, anche giovani, ma non è politicamente pronta. Siamo in bilico, ma come va a finire dipende da fattori imprevedibili. A partire dall’andamento delle guerre in corso. Come insegna la buona politica: strategia ferma, tattica all’occorrenza».

Come torna a vincere il centrosinistra?

«Se si unisce. Se ognuno capisce un po’ di più le ragioni dell’altro, sottolineando le cose che uniscono

piuttosto quelle che dividono. Accettando un’idea paritetica all’interno dell’alleanza, deponendo ogni vanità egemonica. Sottolineando la pericolosità del governo di destra, slabbrato nei comportamenti democratici e istituzionali e, questo vale ancora di più, senza una bussola in politica internazionale, sul ruolo dell’Europa e la crescita economica, industriale, sociale e culturale. Infine, ed è la questione decisiva, se coglie il nucleo di “verità” che regge uno stare insieme così ampio. Insomma, se non si presenta come una “accozzaglia” di forze all’arrembaggio per conquistare il potere, ma definisce una sua funzione reale (e percepita) in questo frangente di storia italiana. Vedo questo, nel contrastare il divorzio tra il turbocapitalismo occidentale senza politica e con in testa solo la “merce” da produrre, vendere e consumare e il regime democratico e liberale. Se si vuole mantenere il meglio dello spirito occidentale, occorre mettere insieme tutte le energie che si oppongono a questo esito così tetro: autoritarismo come garanzia del più crudele capitalismo».

Valuta positivamente il ritorno di Renzi a sinistra? Con quale prospettiva?

«È positivo che cadano i veti. Contemporaneamente è indispensabile che ognuno cambi rispetto al passato. Renzi è un uomo politico che ha segnato una fase importante della sinistra e dei democratici italiani. Ha ingaggiato lotte furibonde, e ne è stato oggetto. Ha creduto nella vitalità e nella capacità autocorrettiva del sistema in cui viviamo. Grande ottimismo e sottovalutazione delle zone d’ombra. Anche lui è allarmato, oggi, della deriva illiberale della destra italiana. Si sente chiamato in causa. In una situazione del tutto nuova: nella quale la politica e gli Stati sono rientrati in competizione nello scenario mondiale. Il mercato autosufficiente, felice e mondializzato sta sbattendo la testa sul muro delle grandi potenze agguerrite che difendono i loro interessi. È cambiato tutto. Penso che Renzi in questa stretta non voglia essere crocefisso al suo passato, ma non pretenda neppure di dare le carte. Più semplicemente, mi auguro, voglia contribuire a riportare a vincere il centrosinistra, fermando un serio rigurgito reazionario. Suppongo che lo ritenga tutto sommato più coerente al suo passato, nel quale fu acclamato, ad un certo punto, anche da tanti elettori e militanti ex comunisti…».

Cadranno, a suo avviso, i veti? A Conte, che al momento sembra chiudere, cosa suggerirebbe?

«Conte chiuderà se si troverà di fronte a manovre tattiche, opportunistiche, improvvisate, di vertice e politiciste. Siccome penso che non sarà questo lo scenario, alla fine si scioglierà in un afflato unitario. Certo, per lui, è decisivo non rinunciare ad alcuni principi, obiettivi, ragioni costitutive del suo mondo. L’alleanza per nessuno può essere una caserma, occorre una certa libertà di pensiero e di movimento. Certe discrepanze se motivate possono essere utili a migliorare la collazione su, certi temi, di tutto il centrosinistra. La condizione è che vi sia tra tutti una base d’amicizia, di lealtà e di lungimiranza».

In una sua intervista parla della necessità di non limitarsi a cooptare Renzi ma ad aprire al mondo liberale. Dunque anche ad altri? Immagina una nuova Margherita, comunque la si voglia chiamare?

«Sì. In Italia un’area liberale, unita e ambiziosa, può partire da un consenso del 10-15%. Se pensiamo che Ugo La Malfa con il 2 o 3% ha condizionato per anni gli indirizzi della Repubblica, possiamo immaginare cosa significhi. Tuttavia, questo campo è stato minato da conflitti, rancori, vendette personali, più che da dissensi sulle cose da fare. Ora stanno ad un bivio. O c’è voglia di unire le migliori “teste” del passato e del futuro per costruire un nuovo soggetto della democrazia italiana, o si resta al protagonismo dei singoli, disordinato e alla fine furbesco, che non serve a chi lo pratica e a chi lo vorrebbe associare in una lotta comune».

Il Pd diventerà l’asse centrale di un centrosinistra che ha Avs e M5S a sinistra e questa nuova Margherita a destra?

«Il PD, per dimensione, ha la responsabilità maggiore nel coordinare un arco composito di forze. Ciò non significa mostrare i muscoli, semmai quando è necessario essere unitari per due. Poi, attenzione a generalizzare su chi sta più a destra o più a sinistra. Tanta parte del mondo cattolico su molti temi è più radicale della sinistra tradizionale. Il mondo laico è più a sinistra della sinistra sulla difesa delle garanzie, della condizione dei detenuti, del processo giusto. Il M5s pronuncia parole molto più nette degli altri sulla pace e l’ordine internazionale. Mischiandosi si può imparare e migliorare».

Chi può essere il federatore di quest’area nascente?

«Prima la “cosa”, poi il nome. Ora mettiamoci in cammino per realizzare la “cosa”».

Nel Pd con il ritorno di Gentiloni alla politica attiva si rafforzerà l’area riformista, auspica un riequilibrio nei gruppi dirigenti?

«Gentiloni lo conosco bene. Nasce con Rutelli a Roma. Siamo cresciuti insieme. È una personalità molto complessa. Pacato, misurato, quasi sotterraneo, educato e diplomatico. Ma di una forza adamantina nel perseguire i suoi obiettivi, pochi ma chiari. Se torna ad impegnarsi in Italia, non sarà per fare il pensionato o l’analista o l’osservatore. È una delle più forti intelligenze che hanno i democratici: deve assumere il ruolo che gli compete, in un gruppo dirigente plurale, non mi stancherò mai di dirlo, che raccolga le donne e gli uomini migliori del PD».

Mattarella, che del retaggio democratico e riformista è l’espressione più alta, ha fatto un discorso politico ai giornalisti per la cerimonia del Ventaglio. Ha richiamato la necessità di un’attenzione verso gli eccessi eversivi dell’estrema destra, dopo il pestaggio di Torino. Esiste il pericolo di frange e di parti dei movimenti giovanili di cui i partiti di maggioranza perdono il controllo?

«Le rispondo telegrafico. Se non avessimo avuto nei mesi passati Mattarella, saremmo andati incontro a guai seri. Molto seri. Chi ci governa è privo di autocontrollo e prigioniero (almeno alcuni) delle piazze che ha frequentato in gioventù. Ecco perché indebolire con il premierato la figura del Presidente della Repubblica è un azzardo da respingere».

Lei è un garantista nato, come figlio di avvocato prima e poi come attore della politica. Il Pd è garantista a parole e poco garantista nei fatti. Lei l’avrebbe fatta la manifestazione a Genova per chiedere le dimissioni di un governatore che non ha riportato condanne?

«La manifestazione per mandare via Toti l’avrei fatta, perché politicamente è un Presidente fallito. È finita la sua fase. È scoperto il suo sistema di potere. Invece, non chiederei mai, sottolineo mai, un passo indietro a chi è oggetto di indagini, con imputazioni tutte da dimostrare. Troppi proscioglimenti dopo anni di graticola hanno dimostrato la crudeltà delle sentenze sommarie dell’opinione pubblica o degli stessi colleghi di partito che forse, per la loro coscienza opaca, non vogliono neppure sfiorare la persona inquisita. Gerardo Chiaromonte mi ripeteva spesso: “Attento, Goffredo. Dietro ogni moralista c’è sempre un imbroglione”. Chi è certo della propria correttezza non ha paura di toccare la melma, perché non gli resta attaccata addosso».

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