Il 7 ottobre visto da vicino. E l'Occidente troppo debole con Hamas
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“Il campo largo non è solo un confine elettorale. È uno stato d’animo, un sentimento, un’intima sintonia attorno alle idee di progresso
05 MAR 2024 lettere Direttore, ilfoglio.it lettura5’
Al direttore - “Il campo largo non è solo un confine elettorale. È uno stato d’animo, un sentimento, un’intima sintonia attorno alle idee di progresso, di libertà, di difesa dei poveretti, di uno sviluppo improntato alla valorizzazione dell’ambiente e della radice umana delle persone, di una politica per la pace […]” (Goffredo Bettini, intervista al Fatto quotidiano). Pensiero lungo, come si diceva una volta nelle sezioni del Pci. Ma anche i pensieri lunghi possono avere le gambe corte. Specialmente se si crede seriamente in quelle di un movimento il cui leader è un impeccabile rappresentante del peggiore trasformismo italico. En attendent un bonus (gratuito, ovviamente) per i nuraghi e – chissà – per gli orsi marsicani.
Michele Magno
Al direttore - La sua “crasi” Mattarelloni è efficace. Non so però se, al di là di questa fase che potrebbe ritenersi straordinaria, con Mattarelloni si voglia indicare lo standard di quelli che devono essere i rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi. Il primo, a mio avviso, come finora ha dimostrato con estremo rigore, non può che essere “super partes” oppure, in determinate circostanze, può prendere una parte quando la ritenga coincidente con i superiori interessi del paese. Fin qui, quella del capo dello stato Sergio Mattarella è stata un’alta lezione del modo in cui deve agire la più alta magistratura dello stato. Certamente, lei condivide queste valutazioni, ma soprattutto segnala i ritardi del governo in diverse decisioni concernenti l’economia, a cominciare dalle nomine in società partecipate dal “pubblico” e dalla concorrenza, in generale, materie su alcune delle quali si manifesterebbero impulsi e sollecitazioni del Quirinale. Ma qui siamo già su di un altro piano.
Angelo De Mattia
Al direttore - La missione in Israele con l’American Jewish Committee inizia a Sderot, al confine con la Striscia di Gaza. Davanti ai nostri occhi uno scenario agghiacciante: una stazione di polizia presa d’assalto in quel 7 ottobre, macchiata dal sangue di civili e giovani soldati, edifici sventrati dai razzi, auto crivellate di colpi, una città fantasma dopo l’attacco di Hamas. La seconda tappa è il kibbutz di Beeri: davanti a ogni porta c’è la fotografia di chi in quella casa è stato ucciso, rapito, torturato, bruciato vivo. Camminiamo con difficoltà tra rottami, vecchi giocattoli e frammenti di quella che era la vita prima dell’arrivo dei miliziani di Hamas. Qui tutto sa ancora di morte e distruzione. Quando ho scelto di fare questo viaggio con i colleghi Lia Quartapelle, Alessandro Alfieri, Roberto Cociancich, Marco Scurria, Marco Dreosto e diversi parlamentari europei, non sapevo quello a cui sarei andata incontro. Abbiamo incontrato le famiglie di alcuni ostaggi, la loro vita è ferma a quel dannato 7 ottobre e chiedono all’Europa di tenere alta l’attenzione sulle sorti dei loro cari, affinché non si lasci nulla di intentato. Israele è un paese sotto choc. Sono passati diversi mesi, ma l’orrore di quel 7 ottobre è più vivo che mai. Quella data rappresenta uno spartiacque. C’è un prima e un dopo. Tornare indietro è impossibile. Ho ascoltato la storia di Vivian Silver, attivista israeliana da sempre in prima linea per i diritti delle donne e per la pace con i palestinesi, brutalmente uccisa durante l’attacco. Ci sono voluti trentotto giorni ai volontari israeliani per riconoscere che fosse lei. In questi mesi il popolo israeliano sta dando prova di grande unità, il dibattito politico interno è del tutto azzerato, non ci sono partiti o colori politici differenti che tengano, ma c’è una preoccupazione esistenziale per lo stato d’Israele. Eliminare militarmente Hamas e smilitarizzare Gaza, riportare a casa gli ostaggi, consentire a Israele di esistere è tutto ciò che conta. Come è emerso anche nel corso dell’incontro con l’ambasciatore italiano in Israele, Sergio Barbanti, gli israeliani non hanno un altro posto in cui andare, non hanno altra scelta che restare e combattere Hamas. Un popolo chiamato anche a contrastare certa propaganda, fake news e disinformazione che puntano a isolarlo tra l’opinione pubblica e a livello internazionale. La verità è che questo conflitto è solo una tessera di un mosaico geopolitico molto più grande. Mentre Hamas colpisce Israele, ma tradisce al contempo anche la causa palestinese, usando civili come scudi umani, sullo sfondo c’è una saldatura tra Iran, Russia e Cina che rappresenta una seria minaccia per l’occidente. Ecco perché Israele, così come l’Ucraina, sta combattendo questa battaglia anche per noi. A difesa delle democrazie, a difesa della libertà. Arrivare alla soluzione dei “due popoli, due stati” è l’obiettivo, ma l’interlocutore non può essere né Hamas né Hezbollah. Gli israeliani sperano in una nuova leadership nell’Autorità nazionale palestinese per riprendere così un percorso di pacificazione, ma spetta anche alla comunità internazionale dialogare con i paesi arabi moderati affinché aiutino a costruire il dopo Hamas. Di rientro sul volo per l’Italia, ripercorro questi ultimi giorni di missione. Riaffiorano volti, storie, odori, emozioni. Porto con me l’immagine di una tavola sempre apparecchiata nel kibbutz di Beeri, pronta ad accogliere gli ostaggi che – si spera – possano fare ancora ritorno a casa. Porto con me la voce spezzata di una mamma che attende sua figlia, una delle giovani rapite al Nova Music Festival. E così come accade nel deserto del Negev, dove solo una volta l’anno la terra arida fiorisce di anemoni rossi, porto con me l’immagine di quei fiori di campo posti a colorare la sala da pranzo che prima accoglieva la comunità del kibbutz. La paura e il dolore, a tratti, cedono il passo alla speranza. Nonostante tutto.
Mariastella Gelmini, parlamentare di Azione
Grazie del racconto. Suggerisco di incrociarlo con un’analisi offerta ieri dal Wall Street Journal, in un editoriale perfetto. Un’analisi che ci permette di capire a che punto è il conflitto, cosa manca, cosa si potrebbe fare per evitare di avere come unica strategia diplomatica quella di chiedere la resa di Israele. “In guerra, i civili fuggono per mettersi in salvo. Solo a Gaza il mondo ha deciso che tutti i civili debbano rimanere intrappolati nella zona di guerra, in pericolo e più difficili da raggiungere con gli aiuti. Dopo che l’Egitto ha chiuso i suoi confini in solidarietà con la causa della Palestina – indipendentemente dal costo per i palestinesi – ci si aspetterebbe che Il Cairo debba affrontare grandi pressioni per salvare vite umane. Si è verificato il contrario”. E ancora: “Invece di chiedere all’Egitto di rispettare l’obbligo previsto dal diritto internazionale di accogliere i rifugiati provenienti dai combattimenti vicini, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno fatto propria la posizione dell’Egitto e hanno ammonito Israele a non spostare i civili da Gaza”. E infine: “Gli Stati Uniti danno all’Egitto aiuti per 1,3 miliardi di dollari all’anno. Il signor Biden ha influenza ma ha scelto di non usarla. Quindi, invece di civili in fuga dai combattimenti, che ricevono aiuti in condizioni più libere e poi ritornano dopo la guerra, sono stati trattenuti a Gaza per fungere da problema di Israele. La loro presenza in così gran numero porta a più vittime, condizioni disperate, una guerra più lunga ed enormi sfide per la distribuzione degli aiuti. Di tutto questo si attribuisce la colpa a Israele. Piuttosto che portare in salvo gli abitanti di Gaza, gli organi umanitari mondiali in ogni fase della guerra hanno chiesto a Israele di cessare il fuoco, lasciando Hamas al potere con ostaggi al seguito”. Accusare Biden di essere contro Israele è troppo, lo sappiamo, ma non riconoscere che la comunità internazionale non sta facendo tutto quello che potrebbe fare per combattere Hamas è qualcosa in più di una semplice retorica: è una drammatica realtà