SPILLO SINDACALE/ Gli errori di Landini e Bombardieri sulla rappresentanza
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“Attenzione battaglione!”: i due Capitan Fracassa del sindacalismo nostrano manifestano tendenze neocorporative. E un tantino golpiste
06.02.2024 - Giuliano Cazzola, ilsussidrio,net lettura4’
Nei giorni scorsi Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri si sono espressi a favore di una legge sulla rappresentanza sindacale
Cominciamo da Maurizio Landini seguendo la regola aurea dell‘ubi maior, minor cessat.
Intervenendo a un convegno promosso dalla Cgil e della Fillea del Lazio/Roma, il leader della confederazione di Corso d’Italia ha ribadito che “serve una legge sulla rappresentanza per dare valore ai contratti nazionali. Le poche volte che siamo stati convocati c’è una pluralità di associazioni sindacali. Io sono per la libertà sindacale assoluta, ma non è che siamo tutti uguali”. Forse, senza accorgersene, Landini ha citato un celebre racconto di George Orwell, “La fattoria degli animali”, nel punto in cui il cavallo Gondrano ha dei dubbi e si reca a consultare il decalogo della rivoluzione scritto sul muro della stalla, scoprendo che all’articolo 1 “Tutti gli animali sono uguali”, una misteriosa manina ha aggiunto “ma alcuni sono più uguali degli altri”.
Più argomentata la richiesta di Pierpaolo Bombardieri, il quale, in conferenza stampa da Milano, ha individuato persino la soluzione.
Bombardieri chiede una legge di sostegno che ratifichi gli accordi sottoscritti da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil sulla misura della rappresentanza sindacale per “chiarire chi in questo Paese ha la possibilità di sottoscrivere contratti ed è maggiormente rappresentativo”. Secondo il Segretario generale della Uil, sarebbe necessario un intervento normativo che preveda l’obbligatorietà per le aziende di comunicare gli iscritti al sindacato e dia la possibilità di svolgere le elezioni telematiche delle Rsu, arrivando anche alla misurazione della rappresentanza delle associazioni datoriali, per interrompere “il fiorire di sigle che firmano contratti in dumping”.
Bombardieri fa riferimento al percorso iniziato nel 2014 con la sottoscrizione con Confindustria del Testo unico sulla rappresentanza, che, a suo dire, è a oggi in uno stato avanzato di attuazione, e “sta dimostrando come il sistema di misurazione e certificazione della rappresentanza possa essere portato a compimento in un quadro di regole volto alla certezza, trasparenza e terzietà”. Forse Bombardieri non si è accorto che è passato un decennio dall’inizio di quel percorso virtuoso e che, per sua ammissione, lo stato di attuazione è avanzato ma non concluso, nonostante il contributo dell’Inps nel dare conferma dei numeri. Se la procedura concordata fosse davvero a buon punto non si vedono i motivi per cui toccherebbe alle aziende dare formale comunicazione dei lavoratori iscritti, ammesso e non concesso che non vi siano problemi di privacy.
Sostanzialmente l’impianto a cui si riferisce Bombardieri si basa sul solito mix di iscrizioni e di voti: per quanto riguarda la misurazione del dato elettorale, si ricorrerebbe alla rilevazione dei risultati conseguiti dai sindacati nelle elezioni delle rappresentanze unitarie, considerando la percentuale dei voti ottenuti sul totale dei votanti. I risultati, quindi, sarebbero comunicati al Cnel, a cui spetterebbe l’accertamento della rappresentatività, alle organizzazioni sindacali dei lavoratori che hanno nella categoria o nell’area contrattuale una rappresentatività pari ad almeno il 5%. In questo senso erano stati presentati e discussi nella passata legislatura al Senato alcuni disegni di legge (del Pd e del M5S) poi messi in disparte per l’emergenza sanitaria. Ma nella proposta di Bombardieri c’è un salto logico che non è facile superare.
Il Testo unico sulla rappresentanza non ha soltanto natura negoziale, ma se ne avvale in un preciso contesto fondato sul reciproco riconoscimento – che ha retto fino a oggi il sistema delle relazioni industriali – tra Confindustria (poi a seguire le altre confermazioni imprenditoriali di volta ammesse al club della rappresentatività) e Cgil, Cisl e Uil.
Nel corso del dibattito sul salario minimo sono venute a galla, con la collaborazione del Cnel, aspetti che hanno smentito troppi luoghi comuni.
Li ricordiamo a ogni buon fine: 1) al 97% dei lavoratori dipendenti si applicano contratti collettivi stipulati da Cgil, Cisl e Uil. Non è forse sufficiente questo dato per riconoscere quali sono i sindacati maggiormente rappresentativi?; 2) i c.d. contratti pirata incidono per lo 0,3% del lavoro subordinato, perché il 2,7% residuo è attribuito a soggetti considerati comunque rappresentativi; 3) la legge delega approvata dalla Camera con le norme sul giusto salario stabilisce che sia applicato a tutti i lavoratori di una determinata categoria il trattamento complessivo in vigore per il maggior numero di essi; 4) se ce ne fosse bisogno – anche se non si capisce quali saranno le misure -, la medesima delega prevede norme atte a debellare il fenomeno dei contratti in dumping sociale.
In realtà in tutta questa grande agitazione c’è un problema vero di cui nessuno si è ancora messo a cercare la soluzione.
Il concetto di categoria ovvero della platea a cui si applica il contratto e se ne verifica la prevalenza non è predefinito (come lo era ai tempi del corporativismo), ma è anch’esso un dato negoziale; il che significa che sono la parti a disegnare i confini di quel pezzo di mercato del lavoro che viene definita categoria. A noi sono arrivate più o meno quelle della tradizione, secondo un puzzle tenuto insieme dalla volontà delle parti, ma non imposto loro preventivamente. Se non si chiarisce questo aspetto resterebbe l’insidia dei contratti pirata, se negoziati in un ambito in cui risultino essere la disciplina più applicata. Il problema dovrà essere affrontato e risolto dal decreto legislativo una volta approvata la delega in via definitiva. È fin troppo ovvio che in un regime di libertà sindacale non può essere la legge a stabilire le suddivisioni merceologiche del mercato del lavoro. Avendoci molto pensato sono arrivato a ipotizzare una norma siffatta:
articolo 1- Trattamento minimo obbligatorio
1. La condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria è pari al trattamento economico complessivo minimo di cui ai contratti collettivi più applicati nella medesima categoria;
2. In fase di prima applicazione le categorie di cui al comma 1 fanno riferimento ai settori e sottosettori classificati nell’Archivio Nazionale dei contratti e degli accordi collettivi istituito dal Cnel ai sensi dell’articolo 17 della legge n.396/1986.
Questa norma legittimerebbe nuovamente l’attuale sistema ponendolo a base di quello futuro senza impedirne le eventuali modifiche successive secondo il diritto comune.