Don’t cry for me, Argentina. Un ballottaggio all’insegna del bi-peronismo, specchio del nostro futuro possibile

Se si trattasse dell’Italia, all’indomani del voto entrambi i candidati scoprirebbero che non ha senso dividere ciò che il debito pubblico può unire,

25.10.2023 Francesco Cundari, linkiesta.it lettura2’

proprio come da noi, nel 2018, si unirono sostenitori del reddito di cittadinanza e fautori della flat tax, teorici dei mini-bot e cantori della decrescita felice

Su tutti i giornali ieri si parlava di un paese costantemente sull’orlo della bancarotta, da decenni schiacciato dal peso di un gigantesco debito pubblico, in cui al ballottaggio delle presidenziali, il prossimo 19 novembre, si confronteranno un «peronista progressista» e un «populista ultra-liberista». La buona notizia è che quel paese non è l’Italia. La brutta è che potrebbe esserlo.

Già il fatto che i giornali italiani parlino di una sfida tra un candidato «peronista», Sergio Massa, e un candidato «populista», Javier Milei, mette a dura prova la nostra capacità di orientarci nella politica argentina, e non solo argentina, ma mette a dura prova anche il dizionario, essendo il movimento fondato da Juan Domingo Perón tra gli archetipi del populismo sudamericano.

Non per niente, in vista delle elezioni, il peronista Massa, ministro dell’Economia nel governo uscente, non ha esitato a mettere ancor più a rischio la stabilità finanziaria del paese pur di eliminare l’imposta sui redditi per il novantanove per cento dei lavoratori, aumentare gli stipendi dei dipendenti pubblici e regalare ai pensionati un «bonus» del valore di cento dollari (nell’insieme, una specie di superbonus elettorale, senza neanche la ristrutturazione dei palazzi); mentre l’altro, l’anarco-capitalista Milei, pensa di risolvere i problemi dell’economia argentina adottando direttamente il dollaro come moneta nazionale, abolendo la banca centrale, liberalizzando la vendita di armi e persino la vendita di organi (quando si dice: liberismo selvaggio).

Come ricorda l’Economist, l’Argentina è andata in default nove volte da quando ha raggiunto l’indipendenza, nel 1816, di cui ben tre dopo il 2000. Per ovviare alle conseguenti difficoltà a finanziarsi sul mercato, i governi peronisti hanno più volte costretto la Banca centrale a stampare moneta, truccato le statistiche sull’inflazione e persino multato gli economisti che si azzardavano a diffondere proprie stime. Non sorprendentemente, l’inflazione in Argentina è arrivata al centotrentotto per cento (nessun refuso: centotrentotto per cento).

Se quel paese fosse davvero l’Italia, all’indomani del voto entrambi i candidati scoprirebbero che non ha senso dividere ciò che il debito pubblico può unire, proprio come da noi, nel 2018, si unirono sostenitori del reddito di cittadinanza e fautori della flat tax, teorici dei mini-bot come alternativa all’euro e cantori della decrescita felice. Siccome quel paese è l’Argentina, e il sistema è presidenziale, c’è da augurarsi che vinca il meno pazzo e meno pericoloso dei due, cioè il peronista, contro il candidato ultra-liberista, convinto sostenitore di Donald Trump e Jair Bolsonaro.

Nel frattempo, però, qui in Italia faremmo meglio a riflettere bene su come evitare di ritrovarci presto in una situazione simile, passando direttamente dal bipopulismo al biperonismo, con tutti i rischi del caso, anche per quanto riguarda la stabilità del nostro (sempre crescente) debito pubblico.

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