Debole con i forti. Il populismo della destra di governo è un fallimento che pagheremo tutti
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Fratelli d’Italia vorrebbe diventare la Democrazia cristiana del XXI secolo e mantenere il potere a lungo, illudendosi che il ventisei per cento e una classe dirigente arrangiata bastino a costruire un’egemonia reale
Mario Lavia 21.1.2023 linkiesta.it lettura3’
Debole con i forti, il governo dominato da Fratelli d’Italia non regge il doppio fronte benzinai-concessionari balneari, blandisce i primi (senza successo) e addirittura premia i secondi allungando le concessioni sine die. Per la prima volta i sondaggi calano: meglio non esagerare.
Governi in mutande, cose già viste mille volte. Con i dorotei, con Berlusconi… Il problema però è molto più grande di queste piccinerie politiche: il paradosso storico in cui Fratelli d’Italia rischia di cadere è che mentre ripropone la vecchia idea missina della riconciliazione, rischia di spaccare il Paese agitando i temi identitari. spesso con arroganza e disprezzo per le altrui posizioni.
Ora, un partito è un partito è un partito, parafrasando Giulietta, e dunque ha tutto il diritto di fare le battaglie in cui crede. Ma nel momento in cui questo partito non solo è al governo ma lo dirige e si confonde con esso ecco che l’ambizione dovrebbe essere un’altra: conquistare la parte del Paese che non ti ha votato o quantomeno cercare di non approfondire gli steccati.
Invece i toni, soprattutto i toni, dei dirigenti di Fratelli d’Italia sono divisivi, polemici, talora pesanti verso l’altra metà della politica italiana («La sinistra rosica», questo slang tardo-romanesco adoperato anche da non romani forse in omaggio alla Garbatella).
Non si tratta del solo Ignazio La Russa, uno che mostra di non rendersi conto cosa significhi essere presidente del Senato (tra l’altro il “supplente” del Capo dello Stato) quando teorizza con candore di non rappresentare tutti gli italiani perché «quello lo fa il presidente del Consiglio»: è esattamente il contrario, lui è presidente di un ramo del Parlamento che, in quanto tale, rappresenta esattamente tutto il popolo. Ma il suo problema prima ancora che politico è umano, riguarda lo stile, il contegno, che come il coraggio di don Abbondio, se uno non ce l’ha non se lo può dare.
Attenzione però, La Russa è solo la punta dell’iceberg. È l’immagine vivente della revanche missina, la memoria dell’oltretomba nera, un uomo di settantacinque anni felice come un bambino per essere arrivato sullo scranno più alto di palazzo Madama dopo decenni di marginalità politica e culturale.
Ma dietro l’arroganza del presidente del Senato si stagliano le posture dei “colonnelli” diventati ministri e sottosegretari, gente che dall’oggi al domani si è trovata il Paese in mano: non tanto lei, Meloni, impegnata a cancellare le vene gonfie e lo sguardo malandrino che esibì sui palchi di San Giovanni e di Marbella («Yo soy Giorgia»). Ma devi vedere gli altri come si agitano a perorare i temi identitari, la commissione sugli anni Settanta (oddio, Acca Larentia e Sergio Ramelli, e allora Walter Rossi eccetera eccetera), la «personalità giuridica del feto», Dante Alighieri di destra, il primato della lingua italiana, l’«umiliazione degli studenti», la caccia ai giornalisti, naturalmente la super-ciliegina del presidenzialismo, il mai sopito antieuropeismo viscerale (sintetizzato dal «Bruxelles stravolge le nostre vite» di Marcello Veneziani, La Verità di ieri).
Se non si temesse di nobilitare culturalmente questa carica identitaria veicolata da rancore e spirito di rivalsa, verrebbe da richiamare il Carl Schmitt della contrapposizione tra amicus e hostis nel quadro di un populismo di destra che va a sostituire quello “di sinistra” di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, irrobustito dal decisionismo di destra di lunga e pericolosa tradizione.
Ma su tutto, come detto, domina il riflesso psicologico dell’emarginato divenuto potente, addirittura arbitro delle situazioni anche umane (cacciare quello, metterci questo…) ignorando del tutto le regole della mediazione, della composizione degli interessi, della riconduzione del discorso politico a unità.
In questo, non ce la faranno mai a diventare la Democrazia cristiana del XXI secolo: della Democrazia cristiana prenderanno giusto le furbizie ministeriali, le strizzate d’occhio a chi di dovere, le mezze verità a favore del popolino. Per tutto questo, la famosa «pacificazione» alla fine è solo il mero riconoscimento della legittimità della destra a esercitare il potere al pari delle altre correnti politiche ma dentro un quadro di rottura sui valori, sulle posture, sulle parole persino, nell’illusione che il ventisei per cento basti a costruire un’egemonia reale. È la famosa eterogenesi dei fini: volendo chiudere una ferita ultradecennale, la destra al governo dividerà il Paese più di prima e peggio di prima. E sarà un fallimento suo che pagheremo tutti.