Tutto marketing, zero politica: ecco perché il decreto dignità è il peggior inizio possibile di Di Maio
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Il provvedimento del Governo è un mix eterogeneo di intenti. Che non serve a incentivare l’occupazione, né la stabilizzazione del lavoro. Che non aiuta le imprese. E non guarda al futuro
di Francesco Cancellato 4 Luglio 2018 - 07:44 www.linkiesta.it
Ci sono poche cose che definiscono il Movimento Cinque Stelle più del decreto dignità. Una stupenda trovata di marketing politico, costruito su slogan molto efficaci - «i lavoratori tornano a essere persone, non numeri», «oggi licenziamo il Jobs Act» - che si venderà benissimo sui social network, ma del tutto disorganica al suo interno, senza alcuna elaborazione culturale alle spalle, né alcuna visione in prospettiva, che produrrà scarsissimi effetti concreti, con rischio siano di segno opposto rispetto a quelli immaginati dal ministro Di Maio.
Partiamo dall’inizio. Alzi la mano chi ha capito perché unire sotto lo stesso decreto un provvedimento sui contratti a termine, uno sugli investimenti produttivi e uno sul contrasto alle ludopatie. Sia chiaro, non pretendiamo le riforme Hartz, o un testo unico su formazione, lavoro, welfare e pensioni a un mese dall’insediamento del governo. Però almeno un minimo di coerenza interna, qualcosa che faccia anche solo intuire quale sia la direzione in cui vuole andare l’esecutivo ce la saremmo aspettata.
In concreto, poi, non si capisce che effetti dovrebbero produrre le nuove norme. Prendiamo i contratti a tempo determinato, che nel 2017 hanno raggiunto il loro massimo storico, superando i tre milioni circa di lavoratori, 537mila nel solo ultimo anno. La diciamo in un altro modo: su 100 nuovi posti di lavoro creati negli ultimi 12 mesi, 1 è permanente, 4 sono autonomi, 95 sono a tempo determinato. Peraltro, su cifre perfettamente in media rispetto al resto dell'Unione Europea, segnale di un mutamento strutturale del mercato del lavoro, che poco dipende dalle leggi italiane. Davvero si pensa che punendo queste scelte occupazionali, aumentandone il costo o le rigidità contrattuali, si potranno magicamente sostituire questi lavoratori con dei posti a tempo indeterminato nuovi di zecca? Oppure saranno solo un po’ di posti a tempo determinato in meno - e magari un po’ di lavoro nero in più - soprattutto dove le imprese sono meno strutturate e capitalizzate? Curioso, per il Movimento delle piccole imprese che ha preso una valanga di voti al Sud.
I contratti a tempo determinato, nel 2017, hanno raggiunto il loro massimo storico. Davvero si pensa che punendo queste scelte occupazionali, aumentandone il costo o le rigidità contrattuali, si potranno magicamente sostituire questi lavoratori con dei posti a tempo indeterminato nuovi di zecca?
Aggiungiamo: forse, più che sconfiggere il precariato, serve promuovere l’occupabilità in un mondo di rivoluzioni tecnologiche e di repentine mutazioni del mondo produttivo. E per farlo non servono decreti o punizioni, ma un pesante investimento nella qualificazione del capitale umano, nella formazione continua, nella quale l’Italia continua a essere fanalino di coda, o nell’orientamento scolastico, o nella riduzione di quella piaga che si chiama disoccupazione a lungo termine, per la quale sono necessarie - e qui sappiamo di sfondare una porta aperta - politiche attive del lavoro che funzionano. Come quelle che Di Maio stesso ha promesso in campagna elettorale, e delle quali ci sarebbe piaciuto sentir parlare già dentro il decreto dignità.
Lo stesso, peraltro, vale anche per le misure punitive per le imprese che delocalizzano dopo aver ricevuto aiuti di Stato. Che può essere giusto in linea di principio, ma non in un Paese che ha il problema diametralmente opposto. Anche dopo il boom del 2016, con un 50% di crescita degli investimenti diretti esteri, l’Italia - terza potenza industriale europea - è comunque la tredicesima economia del continente per capacità di attrazione dei capitali stranieri. I motivi sono molteplici e non dipendono dalla cattiveria delle imprese: si va dalla burocrazia alla tassazione, dall’incertezza del diritto alla lentezza della giustizia, dalla concorrenza sleale alla criminalità organizzata, dalle carenze infrastrutturali al deficit di innovazione dell’ecosistema. Tutte cose che possono logorare un’impresa, che prima di tutto deve pensare alla sua sopravvivenza. Impedirle di andarsene è un atto che non ha nulla di olivettiano e che produce, al pari, l’effetto di disincentivare ulteriormente l’investimento in Italia. Come questo possa aiutare l'occupazione e accrescere la dignità delle persone, rimane un mistero.
Non crediamo che Di Maio abbia in animo di far crescere la disoccupazione e di rendere l’Italia ancor meno attrattiva di quanto già lo sia. Tuttavia è questo l’effetto che rischia di ottenere, nella sua ricerca del tweet perfetto, della copertura a sinistra di una coalizione sbilanciata a destra, della damnatio memoriae di chi l’ha preceduto. Ci dispiace, ma fare politica è un’altra cosa. Imparerà, speriamo.