Non sparate sulla politica: il futuro ce lo siamo giocato da soli
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L'Italia ha la classe politica che si merita, perché ad ogni domanda corrisponde un'offerta adeguata. Forse dovremmo farci altre domande
di Francesco Francio Mazza 22 Febbraio 2018 - 06:30 www.linkiesta.it
Senza spinta innovativa, privi della “distruzione creatrice”, incapaci di prenderci le nostre responsabilità. L'Italia ha la classe politica che si merita, perché ad ogni domanda corrisponde un'offerta adeguata. Forse dovremmo farci altre domande
Alla vigilia del voto del 2013, in molti si lamentavano dei contenuti di una campagna elettorale deludente. Invece che di lavoro o di economia, il dibattito era stato monopolizzato dal cagnolino di Mario Monti, dall’ospitata TV di Berlusconi da Santoro e dalle accuse di “nazismo” rivolte al Movimento Cinque Stelle basate su una fantasiosa interpretazione di alcune frasi di Gramsci, con Grillo paragonato addirittura ad Adolf Hitler.
Poco importa che durante l’ultima legislatura l’agire politico dei Cinque Stelle più che ai nazisti abbia fatto pensare a Sturmtruppen: cinque anni dopo la situazione è addirittura peggiorata e il dibattito offerto dalle forze politiche è oscillato tra una lista di promesse irrealizzabili e una chiamata alle armi ora contro eserciti di camicie nere ora contro schiere di sacerdoti voodoo venuti in Italia per compiere riti di magia nera.
Esaltati, mitomani e violenti assortiti non hanno mai smesso di darsele di santa ragione e, imbrattando i monumenti con simboli odiosi, di dare conferma della propria idiozia; la novità, piuttosto, è che mai prima d’ora avevano trovato un’opinione pubblica interessata a occuparsi solo di loro, provando così la gioia – attesa da una vita - di picchiarsi a favore di camera. Tuttavia, mentre su ogni mezzo di comunicazione si parlava di pericolo nero e pericolo rosso, di pericolo nazi e pericolo cannibalismo, la trasmissione “Presa Diretta” di qualche giorno fa è stata l’unica ad occuparsi di un pericolo assai più mostruoso: lo stato attuale del mercato del lavoro italiano, a cominciare da quello rivolto ai più giovani.
È vero, i numeri sono migliorati e questo costituisce, di per sè, tanto una buona notizia quanto una rarità (con i responsabili che si guardano bene dal prendersi il merito, talmente sclerotizzata è la situazione); ma i numeri, come sempre in economia, raccontano solo una parte di realtà e non necessariamente la più importante.
Hai voglia a sbandierare i dati sull’occupazione se poi il lavoro cui si fa riferimento è quello mostrato da “Presa Diretta”, dove si vedono ragazzi pagati cinque euro per lavorare tutta la notte nei centri commerciali, con l’angoscia di fare in fretta per non essere licenziati; e che dire del lavoro di chi consegna il cibo a domicilio in bicicletta, che nonostante le polemiche viene retribuito in una misura che, in quegli anni ’90 in cui la sinistra si occupava ancora dei lavoratori, avrebbe causato una rivolta di piazza? E i numeri, soprattutto, non tengono conto del futuro, che a causa della concentrazione di potere economico (vedi alla voce Amazon o Embraco), unita al rapido sviluppo di nuove tecnologie, si appresta a travolgere un Paese culturalmente fermo agli anni ’80, in cui gli slogan che si ascoltano risalgono se va bene al 1968 e se va male al Ventennio.
Nel nostro Paese l’unica cosa che siamo riusciti a fare tutti insieme, con un impegno, una costanza e una dedizione sconosciuta in tutti gli altri campi della vita pubblica, è stata l’eliminazione di qualunque forma di innovazione dagli anni ’70 ad oggi
A salire sul banco degli imputati, secondo alcuni, dovrebbe essere l’intera classe politica accusata di inadeguatezza, di essere incapace di esprimere un leader e una classe dirigente in grado di guidare il Paese verso le riforme di cui avrebbe bisogno, a cominciare dalla riduzione della spesa e del rapporto debito/PIL.
Ci si dimentica, tuttavia, che la politica oggi è una merce come un’altra, e come tale è soggetta anch’essa alla legge della domanda e dell’offerta.
Quanti italiani sarebbero pronti a mettersi la matita dietro l’orecchio, tipo Orazio il marito di Clarabella, per verificare la fattibilità delle promesse del politico di turno, per poi ripudiare i demagoghi e premiare i virtuosi in cabina elettorale? Quanti giornalisti – in teoria “cani da guardia del potere”, definizione che applicata all’Italia fa venire in mente, al massimo, i chihuahua nelle Louis Vuitton con cui si accompagnano le fashion bloggers – dopo aver smascherato l’immane quantità di balle che ci sono piovute addosso negli ultimi due mesi sono andati a chiedere conto delle stesse, senza accontentarsi di risposte generiche? Quanti intellettuali un tempo prodighi di girotondi hanno lanciato proteste di piazza per protestare contro uno spettacolo grottesco celebrato sulla pelle di un’intera generazione di lavoratori – come dimostrato dalle immagini di “Presa Diretta”? Nessuno.
E il motivo è spiegato, metaforicamente, da un’altra teoria economica, quella della “distruzione creatrice” (o creativa) di Joseph Schumpeter. Secondo l’economista austriaco, l’evoluzione di una società capitalista è determinata dall’innovazione, che a intervalli regolari impatta su determinati settori dell’economia in modo così violento da costringere tali settori a trasformarsi, pena l’estinzione (proprio quello che sta accadendo nel resto del mondo occidentale). Ma nel nostro Paese l’unica cosa che siamo riusciti a fare tutti insieme, con un impegno, una costanza e una dedizione sconosciuta in tutti gli altri campi della vita pubblica, è stata l’eliminazione di qualunque forma di innovazione dagli anni ’70 ad oggi.
Lo stesso “capitalismo di relazione”, definizione edulcorata per descrivere il modello del “tu fai un favore a me, io faccio un favore a te, e a posto cosi’” - è l’unico sistema economico che, per decenni, ha retto il sistema e che abbiamo utilizzato per congelare la realtà in uno stato di eterno presente, in cui la cosa davvero importante era che tutto restasse uguale e le facce fossero sempre le stesse, proprio come cantava Rino Gaetano in “Nun te reggae più”, ormai quarant’anni fa.
Peccato che, dopo decenni passati a sfangarla, la situazione si è fatta insostenibile: nel mondo interconnesso il nostro sistema chiuso è collassato, la nostra mancanza di competitività si è rivelata un macigno troppo grosso; ma piuttosto che reagire collettivamente all’emergenza, assumendoci per una volta le nostre responsabilità (per esempio ai tempi del governo Monti) abbiamo scelto di restare fedeli a noi stessi fino in fondo, e affondare insieme alle zavorre dei piccoli privilegi e degli ancor più piccoli interessi corporativi.
Non percependo nessuna volontà di innovare da parte dei cittadini — non esistendo, quindi, nessuna “distruzione creatrice” — la politica si è accodata di conseguenza
Non percependo nessuna volontà di innovare da parte dei cittadini — mancando, quindi, la “distruzione creatrice” — la politica si è accodata di conseguenza, e anzi, incredula davanti a tanta inerzia è lentamente regredita, peggiorando anno dopo anno per meglio venirci incontro, fino a cristallizzarsi nella situazione attuale, che è scandalosa nell’offerta ma perfettamente funzionale alla domanda.
Politici non “bravi” ma semplicemente “normali”, promuoverebbero oggi un patto di solidarietà intergenerazionale, che costerebbe giocoforza dei sacrifici: ma perché dover andare a perdere matematicamente dei voti se per guadagnarne il doppio basta intonare “Bella Ciao” o andare a far casino fuori dal Museo Egizio?
Ogni blocco sociale nemico del cambiamento – la stragrande maggioranza dei cittadini - si rispecchia perfettamente in uno dei partiti oggi in campo, e le promesse irrealizzabili non sono esempi di cialtroneria o impreparazione ma il frutto studiato di una strategia ben precisa: è proprio grazie ad esse che gli elettori ottengono la garanzia che le cose non cambieranno nemmeno stavolta e corrono a dare il proprio voto agli autori delle panzane.
Sdraiata sul divano, l’Italia non ha alcuna voglia di compiere il minimo sforzo e la classe politica è lì per servirla. Siamo noi a volere le promesse, non i politici ad imporceli, proprio come siamo noi a voler credere a compagni e camerati, per evitare di discutere di privilegi che potremmo perdere.
Tanto, nonni e genitori hanno ancora abbastanza soldi da parte per tirare avanti fino a quando il problema non sarà più nostro ma solo dei nostri figli. E nella malaugurata ipotesi che dovessero finire prima, a quel punto piuttosto ci suicideremo sulla spiaggia come le balene, magari dopo esserci fatti una bella mangiata di cozze a Ferragosto con gli ultimi spiccioli.
Chi, se non un 81enne che dice “lire” invece di “euro”, può rappresentare meglio questo crepuscolare Esprit du Temps?