orsi & tori. La storia vera dei 100 miliardi di Scalfari De Benedetti

Narrata da uno che c’era . Il boom di Repubblica dopo la morte di Moro.

 di Paolo Panerai , 22.1.2018 www.italiaoggi.it

Che tristezza veder litigare due personaggi come Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari che per esperienza legata all'età e per ruoli svolti dovrebbero essere di esempio al Paese. E pensare che insieme avevano sottratto il controllo del gruppo Espresso-Repubblica all'editore Carlo Caracciolo. L'inizio di quella poco commendevole operazione è stato involontariamente (o volontariamente?) ricordato dallo stesso ingegner De Benedetti quando, nell'intervista televisiva a La7 del 17 gennaio, ha con una certa violenza rinfacciato a Scalfari di averlo arricchito: «... e pensare che gli ho dato miliardi...». Naturalmente si riferiva a miliardi di lire. Esattamente 100, quando si comprò la quota di circa il 10% del gruppo editoriale posseduta dall'ex direttore de l'Espresso e fondatore di Repubblica.

È esemplare ricordare che cosa accadde molti anni fa, secondo la ricostruzione che mi fece, prima di passare ad altra vita, il principe Caracciolo, la vittima. La casa editrice Espresso-Repubblica era stata da non molto tempo quotata in borsa grazie al buon andamento del settimanale e alla crescita diffusionale di Repubblica dopo l'assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, che segnò una svolta nel trend del quotidiano fino ad allora sotto le 100 mila copie. Caracciolo aveva iniziato la carriera di editore con la pubblicazione degli annuari Etas Compass ed era poi diventato editore de L'Espresso quando Arrigo Benedetti aveva lasciato Il Mondo e aveva deciso, con Scalfari, di ritornare in pista con un giornale ancora più radicale. Il giovane editore non navigava nella ricchezza, anzi, ma la sua posizione di sinistra lo trovava impegnatissimo, insieme al suo braccio destro Gianfranco Alessandrini, a far sì che il nuovo settimanale potesse svilupparsi.

Fino a quando L'Espresso fu formato lenzuolo, la diffusione rimase modesta, ma quando, dopo il successo di Panorama della Mondadori con formato Time, in via Po a Roma decisero di adottare la formula dei news magazine che era già anche del radicale l'Express francese, il settimanale ormai non più diretto da Benedetti ma da Scalfari fece un balzo enorme, fino a superare con alcuni numeri la diffusione di Panorama che viaggiava sulle 300 mila copie.

Fu questa performance del nuovo magazine concorrente di Panorama che spinse Giorgio Mondadori e il cognato Mario Formenton a prendere in considerazione la proposta di Caracciolo e Scalfari di fondare un quotidiano in joint venture al 50%. Nonostante l'abilità dialettica di Scalfari e l'eleganza di Caracciolo, la prima riunione per fondare il giornale nella villa di Mondadori a Sommacampagna si risolse in una fumata nera. Alla riunione aveva partecipato anche Lamberto Sechi, direttore di Panorama, che non era contrario per principio ma per come Scalfari aveva proposto di finanziare l'operazione. Il documento presentato dal direttore de L'Espresso e di Caracciolo prevedeva un investimento modesto dei due soci editori e invece un ricco giardinetto, come lo chiamava Scalfari, di finanziatori capeggiati addirittura da Nino Rovelli, lo spregiudicato proprietario della Sir, la società chimica gonfiata da centinaia di miliardi di finanziamenti pubblici e poi finita in una liquidazione.

 

Di ritorno da Sommacampagna Sechi, che era il mio direttore, mi diede una copia del documento-giardinetto e del verbale perché lo aiutassi ad argomentare con Formenton, che mi onorava della sua amicizia, sulla inopportunità di avere imprenditori non editori e in particolare del tipo di Rovelli (non era del resto il solo), che avrebbero minacciato l'indipendenza e la trasparenza non solo del nuovo quotidiano ma anche di Panorama.

Più Formenton, che era un puro piuttosto che Giorgio Mondadori, si convinse subito che quel giardinetto non era accettabile e che se Scalfari e Caracciolo avessero voluto fondare il quotidiano avrebbero dovuto rassegnarsi a mettere più capitale.

Come già detto, i primi anni di Repubblica furono grami anche se senza perdite pesanti. Quando la vicenda tragica di Moro fece magicamente esplodere il quotidiano che certo aveva in sé i geni di un grande giornale, sia pure radicale e spesso fazioso ma libero, Caracciolo ebbe l'intuizione di sviluppare un ampio network di quotidiani locali, fuori della jv per Repubblica. Con Alessandrini, il principe cognato di Giovanni Agnelli progettò pertanto un aumento di capitale de L'Espresso, con in pancia il 50% di Repubblica e quindi assai appetibile dal mercato, dove la società editrice di via Po era già approdata. Il tipo di aumento di capitale concepito dai due manager che gestivano la società era del tipo a cui pensa chi vuole evitare di tirar fuori altri capitali, E cioè con una rinuncia al diritto di opzione sulle nuove azioni da parte dei vecchi azionisti, pronti pertanto a veder ridurre l'entità della loro partecipazione.

La società editrice de L'Espresso era controllata da un sindacato, in cui la quota maggiore era di Caracciolo ma dove il secondo azionista era Scalfari, seguito da altri vari investitori fra cui Maria Cristina Busi (il defunto marito Sergio era stato un abile investitore), Giulia Maria Crespi, ex controllante del Corsera sposata Pallavicini, e l'industriale farmaceutico della Sigma Tau, Claudio Cavazza, che era nella compagine de L'Espresso anche ai tempi del formato lenzuolo.

Il sindacato era stato sondato da Alessandrini e tutti si erano dichiarati disponibili a rinunciare al diritto di opzione sull'aumento di capitale, per avere la liquidità necessaria a realizzare per intero il progetto di Caracciolo sui quotidiani locali.

Era stata quindi convocata una riunione del sindacato stesso, nella sede di via Po, con il consueto orario non stressante. Quasi tutti arrivarono in perfetto orario, meno Scalfari che anzi si fece attender non poco. In sua assenza tutti avevano ribadito la disponibilità a rinunciare al diritto di opzione anche perché Caracciolo e Alessandrini avevano ottenuto piena garanzia di sottoscrizione da una delle banche d'affari più prestigiose della storia, la Warburg, una volta basata a Berlino e da dopo l'ascesa di Adolf Hitler trasferita a Londra. Quindi, quando Scalfari si palesò, tutti pensavano che la riunione si sarebbe conclusa in pochi minuti. Invece, prendendo tutti in contropiede, Scalfari annunciò che lui avrebbe esercitato i suoi diritti di opzione e sottoscritto la sua quota ed eventemente anche quella di altri.

Come mi raccontarono Caracciolo e Alessandrini, rimasero tutti sconcertati. Come faceva Scalfari, che pur avendo sempre guadagnato bene, non era certo miliardario in lire? Prevalse l'idea che Scalfari, abile conoscitore dei mercati, avesse valutato un forte rialzo del titolo, tale da consentire di realizzare un forte capital gain. Ma soprattutto per Caracciolo, che appunto non aveva mai navigato nell'oro, era un serio problema trovare la liquidità necessaria per sottoscrivere l'intera sua quota e non diluirsi.

Per sua fortuna Alessandrini, recandosi immediatamente da Franco Cingano, amico e storico amministratore delegato di Banca commerciale italiana (Comit), ottenne sulla parola il finanziamento necessario al suo amico e capo Caracciolo.

Quando l'aumento di capitale andò in esecuzione, saltò fuori la realtà. Scalfari non avrebbe affatto sottoscritto la sua quota, perché nel frattempo aveva venduto la sua partecipazione per un centinaio di miliardi di lire. E a chi, se non a Carlo De Benedetti?

In un certo senso compagni di merende, abili tutti e due a dribblare i soci e in particolare a mettere in difficoltà un gentiluomo ed editore professionale come Caracciolo. Ma evidentemente fare merenda insieme non basta a creare una schietta e leale amicizia e mentre Caracciolo fino alla fine ha continuato a comportarsi da signore, con l'andare degli anni, avvicinandosi il secolo di vita (più per Scalfari che per De Benedetti) i rancori sopiti per convenienza sono saltati fuori, generando situazioni spiacevoli per tutti, compresi i lettori di Repubblica (definita da De Benedetti, oggi che lui non è più ufficialmente l'editore, un giornale senza senso), e anche chi vi lavora, che non può essere allegro perché, riferendosi al direttore Mario Calabresi, l'Ingegnere ha detto letteralmente, celiando Don Abbondio, che chi il coraggio non ce l'ha non se lo può dare. E a cosa si deve questa raffica di frecce avvelenate (Scalfari è un signore molto anziano che non sa nemmeno interrogarsi e rispondersi)? Come è noto per aver detto Scalfari che dovendo votare, se dovesse scegliere solo fra Silvio Berlusconi e i 5 Stelle, voterebbe per il fondatore di Mediaset e Forza Italia, sempre da lui criticato e da sempre nemico di De Benedetti. Scalfari aveva anche spiegato il perché: perchè i 5 Stelle non danno la minima affidabilità di poter guidare l'Italia.

De Benedetti ha visto, e lo ha dichiarato, che nelle parole di Scalfari ci fosse la voglia di un vegliardo di riconquistare la scena. Il bello della commedia è che De Benedetti nell'intervista televisiva ha condiviso in pieno il giudizio di Scalfari sui 5 Stelle, che però usando parole di maggiore fiducia in Berlusconi ha dato un aiuto fondamentale al Cavaliere.

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Paradossalmente, nella sgradevolezza di assistere all'attacco di un 83enne a un 93enne con la frase che si tratta di un uomo molto anziano non in grado, sostanzialmente, di ragionare, nella polemica almeno c'è una indicazione politicamente rilevante: tutti e due ritengono che i 5 Stelle sarebbero un disastro se andassero al potere. Ma c'è di più: tutti e due più o meno esplicitamente indicano che voteranno per il Pd, anche se De Benedetti giudica Matteo Renzi non più degno di governare. L'osso del contendere è Berlusconi. Ma Scalfari era stato chiamato a scegliere fra i 5 Stelle e Berlusconi. Non vi è dubbio che fra i due Berlusconi sia più affidabile. Ma non c'è solo Berlusconi. Per fortuna, per tutti, ci sono ancor un mese e dieci giorni per poter meditare su un voto che sarà decisivo. E per fortuna, anche per merito di Paolo Gentiloni, è tornato sotto i riflettori il vero problema del Paese, il problema dal quale, direttamente o indirettamente, dipendono quasi tutti: l'enorme debito pubblico, che va ridotto significativamente se non si vuole ritrovarsi con l'Italia in enorme crisi finanziaria e senza una crescita adeguata alla creazione di posti di lavoro. I lettori di ItaliaOggi sanno che con il debito attuale del Paese non si scherza e che quindi occorre che il nuovo governo abbia un programma per tagliarlo. MF-Milano Finanza quindi, dopo l'articolo di Francesco Carbonetti nel numero scorso, riprende oggi, anche a rischio di annoiare, le diagnosi del male e le proposte per curarlo. Chi ha dubbi su chi votare, consideri la bomba del debito e i possibili rimedi una discriminante decisiva per scegliere. (riproduzione riservata)

Paolo Panerai

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