O facciamo lavorare i giovani, o l’Italia muore

Dati Istat allarmanti, la disoccupazione giovanile cresce dello 0,7% congiunturale e dell’1,1% tendenziale. E le politiche attive del lavoro restano lettera morta

di Francesco Cancellato Linkiesta,  28 Dicembre 2016 - 12:11

L’importante è mettere in fila le priorità, perlomeno nel 2017. Perché la questione cruciale per il prossimo anno, qualunque sarà il governo che se ne dovrà occupare, sarà quella della disoccupazione giovanile. Che anche nei dati del terzo trimestre 2016 - i primi pubblicati congiuntamente da Istat, Inps e Ministero del Lavoro - cresce dello 0,7% congiunturale e dell’1,1% tendenziale, nonostante l’occupazione complessiva risulti in aumento su base annua. Tradotto: anche se aumentano, i posti di lavoro non sono per chi ha dai 15 ai 34 anni.

Non è un dato che ci giunge nuovo, peraltro. E il voto antigovernativo dei giovani, lo scorso 4 dicembre, non è che l’ennesimo tentativo di svegliare la politica dal suo torpore e dalla sua atavica tendenza a lisciare i capelli bianchi dei pensionati. Secondo il Young Yorkers Index elaborato dalla società di consulenza PwC lo scorso ottobre, l’Italia è l’ultimo Paese Ocse sui 34 analizzati per livello di occupazione, scolarizzazione e formazione professionale dei giovani tra 15 e 24 anni. Sì, anche la Grecia fa meglio, stavolta. E, per la cronaca, la tanto vituperata Germania è al secondo posto, dietro alla sola Svizzera, e dà le piste pure agli Stati Uniti d’America, decimi. Come dire: forse non è solo dell’Euro, della flessibilità e dei surplus commerciali altrui che dobbiamo occuparci, quando ci lamentiamo della nostra condizione di Paese catatonico.

Magari, occorrerebbe pure ricordarsi che oltre il 42% della popolazione tra i 15 e i 24 anni in cerca di un impiego non trova lavoro non per colpa della recessione ma a causa del mismatch tra domanda e offerta, cosa che anche in questo caso fa di noi i fanalini di coda del mondo civilizzato. E che più che occuparsi di smontare pezzo per pezzo il jobs act con l’ardore dei peggiori controrivoluzionari, bisognerebbe lavorare al suo completamento attraverso l’implementazione delle politiche attive del lavoro sinora rimaste lettera morta. A tal proposito, il fallimento della riforma costituzionale e della piena operatività dell’Anpal, l’agenzia nazionale ad esse deputata, non è una buona scusa per non occuparsene. Ci sono ottime politiche attive del lavoro che sono nate e si sono sviluppate su base metropolitana e regionale. Si prendano ad esempio quelle.

La questione cruciale per il prossimo anno, qualunque sarà il governo che se ne dovrà occupare, sarà quella della disoccupazione giovanile.Che anche nei dati del terzo trimestre 2016 cresce dello 0,7% congiunturale e dell’1,1% tendenziale, nonostante l’occupazione complessiva aumenti su base annua. Tradotto: anche se aumentano, i posti di lavoro non sono per chi ha dai 15 ai 34 anni

E già che ci siamo, non si butti via il bambino con l’acqua sporca nemmeno nel mondo della scuola, continuando ad avvicinarlo al mondo del lavoro, con l’alternanza e con programmi educativi che mettano al centro i nuovi saperi digitali, l’inglese e tutto ciò che serve per avere una professionalità adeguata ai tempi e a misura del bisogno di innovazione dell’economia italiana. E contemporaneamente si continui il percorso di incentivo e stimolo all’innovazione delle nostre imprese iniziato con il piano Industria 4.0, che più rimangono aggrappate al secolo scorso, più perderanno competitività e quote di mercato.

In un numero: secondo PwC la mancata messa al lavoro dei giovani brucia ogni anno 140 miliardi di Pil. Tradotto: potenzialmente - formandola nel migliore dei modi e mettendola tutta al lavoro, nei posti giusti - la forza lavoro giovanile oggi seduta in panchina vale sette punti di prodotto interno lordo. Basterebbe sfruttare un decimo di questa energia per cambiare il destino dell’Italia. Per farne la leva e l’orizzonte cui tendere affinché la nostra economia riparta davvero.

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