Referendum, la politica è nuda di fronte ai populismi
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Con il No gli italiani, popolo conservatore per tradizione, si scoprono refrattari al meccanismo del consenso politico. E L'Italia diventa avamposto del populismo europeo
di Flavia Perina 5 Dicembre 2016 - 09:00 Linkiesta
Quasi diciannove punti di scarto. Per trovare un precedente bisogna andare all'indietro fino al 1974, quando il referendum sul divorzio bocciò la linea della Dc di Fanfani ma anche di larghi settori conservatori del Pci con il 59 per cento di No contro il 40 per cento di Sì. All'epoca, la politica scoprì all'improvviso un Paese molto diverso da come lo immaginava: più laico, indifferente ai consigli dei parroci e alle indicazioni di voto degli apparati sul territorio. Che cosa ci dice, oggi, questo voto di analoga portata, plebiscitario, che proprio per i suoi numeri non può essere “solo” la sconfitta di Renzi, della sua riforma, della sua propaganda?
Facile rispondere: è la cosa che vediamo in tutta Europa e anche negli Usa, è lo stesso sentimento della Brexit, di Trump, l'urlo contro le elite e le classi dirigenti che divide le Nazioni.
Ma il paragone è debole. Il Remain perse per tre punti, una quota modesta e con molte variazioni legati a classi sociali, età, territori. Qui di punti di distanza ce ne sono molti di più, ed è francamente inimmaginabile che a tutte le latitudini – dalla Lombardia alla Calabria – nei posti dove si vive piuttosto bene così come nei luoghi si tira avanti malissimo, dove governa la sinistra e dove c'è la destra, tra i giovani e tra i vecchi, l'elettorato si sia indispettito all'improvviso e tutto nella stessa maniera, più o meno nelle stesse proporzioni.
È dal 2011 che l'Italia cerca qualcuno disposto a interpretarla e ad ascoltarla. Gli italiani non tifano per il caos. Hanno baciato principi azzurri e rospi con la stessa emozionata aspettativa, e tutti si sono rivelati peggio di quel che sembravano
C'è quindi qualcosa di più nel caso italiano rispetto agli altri. C'è una nuova anomalia, o forse sempre la stessa che si riproduce e cambia forma, e che ha a che fare con le costanti e cocenti delusioni che la politica ha riservato agli elettori negli ultimi cinque anni.
È dal 2011 che l'Italia cerca qualcuno disposto a interpretarla e ad ascoltarla, e firma cambiali in bianco a chi via via si propone, e ne viene sistematicamente frustrata. Volò nei sondaggi Mario Monti, con la sua generazione di tecnici prestati alla politica, quelli col loden, così seri e finalmente non cialtroneschi nel modo di parlare e di chiedere consenso.
Piacque Enrico Letta, un altro leader atipico: farà bene, si diceva. Fece letteralmente innamorare Matteo Renzi: alla prima occasione utile, alle Europee, gli elettori lo incoronarono con un colossale 40 per cento.
Insomma, gli italiani non tifano per il caos. Gli italiani ci hanno provato, e ripetutamente. Come ragazze ingenue alla ricerca del fidanzato giusto hanno flirtato, si sono lasciati accompagnare a cena e poi a ballare, hanno baciato principi azzurri e rospi con la stessa emozionata aspettativa, e tutti si sono rivelati peggio di quel che sembravano. Compresa l'ultima leva amministrativa del M5S, che si è presa la Capitale e dopo sei mesi è già costretta a comprarsi il consenso con opinabili regalie a chiunque bussi alla sua porta
Dire “riforme” non basta. Dire “svolta” non è sufficiente. Raccontare domani che cantano senza cucirci intorno consapevolezza e condivisione, non funziona, soprattutto se si tiene un piede nella rottamazione e uno nel continuismo
La crisi di sistema di cui tanto si parla, in Italia, è soprattutto crisi dell'offerta politica e dell'ideologia della stabilità con il suo corollario, l'espressione “riforme per la stabilità”. Tutti i partiti e tutti i leader hanno immaginato di gestirla alla vecchia maniera, con l'alchimia delle leggi elettorali, le concessioni economiche a spezzoni della società, la propaganda, il controllo dei grandi media e della Rete, gli strateghi stranieri, gli endorsement della stampa e degli alleati all'estero, i viaggi in America, il piccolo clientelismo di territorio, la chiamata alle armi dei capibastone del voto organizzato, e soprattutto una ossessiva strategia della paura (“dopo di noi il diluvio”), ma nessuno ha saputo dare contenuti convincenti e senso politico a questa benedetta “stabilità”, a queste “riforme per la stabilità”.
E il voto di domenica 4 dicembre ci dice appunto questo: persino in un Paese sostanzialmente conservatore come l'Italia, persino con un leader giovane, che nell'ultimo anno ha distribuito risorse un po' dappertutto, o si dà un significato decente e condiviso a queste espressioni oppure si viene travolti. Dire “riforme” non basta. Dire “svolta” non è sufficiente. Raccontare domani che cantano senza cucirci intorno consapevolezza e condivisione, non funziona, soprattutto se si tiene un piede nella rottamazione e uno nel continuismo.Adesso è toccato a Renzi, ma al prossimo, chiunque sia, non andrà meglio e sarebbe bene che su questo riflettano un po' i partiti anziché rifugiarsi, come già sta avvenendo, nel politichese e nei calcoli di convenienza immediata.