Bersani spinge al macello la mucca della vecchia sinistra
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L’atteggiamento distruttivo dell’ex leader della Ditta. Dalla foto sbiadita con Gabriel e Hollande al No che non può incassare
di Luciano Capone Dicembre 2016 alle 20:15 Foglio
Roma. “Quello di Prodi non mi sembra un Sì entusiasta. Io non succhio l’osso e neanche il bastone, non mi turo il naso e, soprattutto, non lascio il No alla destra”. Così Pier Luigi Bersani, ex leader della Ditta, ha commentato la metafora contadina con cui il Professore, padre dell’Ulivo e del Pd, ha espresso il suo sostegno alla riforma costituzionale. Il “non lascio il No alla destra” – che ricorda il Walter Veltroni di Maurizio Crozza (“Non possiamo lasciare il Ku Klux Klan alla destra”, “non possiamo lasciare gli evasori alla Lega”) – è figlio di un’altra metafora agreste, usata da Bersani per descrivere l’attuale situazione politica: “C'è unamucca nel corridoio che sta bussando alla porta”.
L’ingombrante animale in casa sarebbe, secondo l’ex segretario del Pd, l’avanzata in tutto il mondo di una nuova destra, non più liberista ma xenofoba e protezionista; quella di Donald Trump in America, della Brexit in Inghilterra, di Rodrigo Duterte nelle Filippine, di Marine Le Pen in Francia e di Viktor Orbán in Ungheria.
Così, tra ossi, bastoni, nasi e bovini, Bersani ha deciso di cavalcare la mucca e lavorare attivamente per respingere la riforma costituzionale che pure ha votato per tre volte da parlamentare.
Non si sa ancora, e saranno le urne a stabilirlo, se sia Bersani che per vincere una volta le elezioni deve schierarsi contro il suo partito, oppure il contrario. Ma di certo se il No dovesse prevalere quella di Bersani sarebbe una vittoria di Pirro: con una sinistra lacerata, un Pd diviso e un governo indebolito, i veri trionfatori saranno i grillini à la Di Battista e la destra di Salvini.
Al di là dell’esito del referendum, la sinistra che ha in mente Bersani è già sconfitta, si è dissolta politicamente e nella società dopo aver perso la sua occasione storica, in Italia e in Europa.
Era la sinistra della “foto di Parigi”, quella di Bersani, Sigmar Gabriel e François Hollande che nel 2012, alla vigilia delle elezioni in Italia, Germania e Francia sottoscrivono il “Manifesto di Parigi” per un “nuovo Rinascimento per l’Europa”. L’italiano ha “non vinto” le elezioni e perso il partito, il tedesco ha perso le elezioni e fa il vice delle Merkel con un partito socialdemocratico in coma, il francese ha vinto le elezioni ma ha fallito da presidente, tanto da decidere proprio giovedì scorso di non ricandidarsi.
I tre cavalieri del socialismo dovevano “cambiare il volto dell’Europa” e invece è successo che l’Europa ha cambiato il volto della sinistra. La “foto di Parigi”, durata il tempo di una campagna elettorale e bruciata dalle urne o dai vincoli di bilancio, è stata sostituita nei mesi successivi dalla “foto di Bologna”, quella con i nuovi leader della sinistra riformista in camicia bianca: il riformatore Matteo Renzi, il centrista premier francese Manuel Valls e il giovane segretario del Partito socialista spagnolo Pedro Sánchez.
Ora anche questa sinistra più riformista e meno vintage non se la passa proprio bene. Sánchez ha perso due volte le elezioni in pochi mesi, è stato costretto ad abbandonare la leadership del partito e si è dimesso da deputato, mentre Valls probabilmente correrà per il partito socialista alle presidenziali dell’anno prossimo al posto di Hollande, ma con scarse possibilità di successo.
L’unico leader della sinistra che, seppure in difficoltà rispetto alle elezioni europee del 2014, è ancora in campo e si sta giocando gran parte del proprio futuro politico con questo referendum è Renzi.
O lui o il bovino. L’unico a non rendersene conto è Bersani, che dopo aver aperto il portone con la “non vittoria” del 2013, con il suo rodeo per il No sta spingendo la mucca dal corridoio verso la sala da pranzo.
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