Il nuovo bipolarismo dopo Trump
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La salute del sistema democratico, la genesi delle leadership, le coordinate del bipartitismo, le lezioni per l’Italia e lo smarrimento della sinistra. Risposte possibili per orientarsi nel mondo della post verità
di Claudio Cerasa | 12 Novembre 2016 ore 06:00 Fogglio
Quattro giorni dopo lo straordinario stordimento mondiale generato dalla vittoria di Donald Trump ci sono molte domande che rimangono ancora senza risposta ma sulle quali vale la pena provare a ragionare per capire senza retorica cosa ci dice il grande romanzo americano rispetto ad alcuni temi oggi diventati ineludibili. Per non fare troppa confusione abbiamo provato a selezionarne cinque, che coincidono appunto con altrettante domande. Cosa ci dice la vittoria di Trump (a) sulla salute delle democrazie mondiali, (b) sulla genesi di una leadership, (c) sulle nuove coordinate del bipolarismo, (d) sulla condizione della cultura progressista uscita devastata dal voto americano, (e) sulle possibili lezioni che la politica italiana dovrebbe cogliere per evitare di sottostimare la portata di un passaggio contraddittorio ma epocale che non può essere liquidato con la semplice storia della vittoria di un “populismo”?
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Sul primo punto, la salute delle democrazie, il tema non è capire se le democrazie funzionano oppure no o se il sistema rappresentativo dà spazio con frequenza eccessiva di istanze politiche in cui l’establishment di un paese fatica a riconoscersi. Il punto centrale è un concetto che su questo giornale abbiamo sviscerato a lungo durante la campagna elettorale e riguarda quel mix pericoloso che si è generato tra democrazie liberali e politicamente corretto. Il filosofo polacco Ryszard Legutko, in un bel saggio pubblicato qualche mese fa in America con una casa editrice (Encounter Books) che da anni accusa il New York Times di essere un giornale distrutto dal bias liberale, lo ha definito “il demone della democrazia” e il concetto è semplice: quando in una democrazia liberale si impone la dittatura del politicamente corretto, e quando cioè i pensieri anti mainstream vengono considerati e trattati come se fossero delle indicibili eresie, succede che la libertà di espressione viene spazzata via dal regime dell’egualitarismo (la diffidenza per l’islam diventa omofobia, la paura dell’immigrazione diventa xenofobia, le critiche ai gay diventano omofobia, e non si ha più nemmeno il coraggio di scrivere uomo o donna sopra la porta di un bagno) e succede che in un paese tende a maturare in più strati sociali una frustrazione che non può che generare l’esplosione di un preciso sistema politico.
Non è questa la causa unica della vittoria di Trump ma nella storia recente americana è un fatto che la grammatica della condivisione ha preso il posto della grammatica della conversazione e l’esplosione del politicamente corretto non poteva che mettere a nudo il vero demone della democrazia e portare così al massimo estremo e cafone della scorrettezza politica. Questo naturalmente non significa, come potrebbe credere qualcuno, che la democrazia sia guasta. Anzi, se c’è una lezione che possiamo cogliere dalle elezioni americane è che la democrazia gira bene laddove esiste (a) un sistema di selezione della classe dirigente che funziona e premia chi ha più voti degli avversari (Dio benedica le primarie) e (b) un sistema bipolare che garantisce l’alternanza tra le forze politiche al governo e che aiuta a gestire i fenomeni estremi costringendo coloro che sono portatori di istanze populiste a tracciare una linea netta tra ciò che rappresenta la sfera della campagna elettorale e ciò che rappresenta la sfera della campagna di governo.
Se c’è una lezione per l’Italia, dunque, la lezione è questa: non bisogna avere paura di chi rappresenta meglio degli altri il popolo, bisogna avere paura di un sistema autodistruttivo in cui il bipolarismo viene strozzato, in cui si preferisce il governo degli ottimati al governo degli eletti e in cui si alimenta e non si combatte il vero virus della democrazia.