La terra trema, e i nostri figli no
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La scossa più forte, domenica mattina, ha segnato un avanzamento: il terremoto è entrato per sempre in ogni parte di noi, anche nei bambini. Ora hanno capito che questo mostro esiste, e non se ne va
Alcuni giocattoli in un centro di accoglienza per i terremotati (foto LaPresse)
di Annalena Benini | 01 Novembre 2016 ore 06:18
Il terremoto di domenica mattina, il più forte di tutti, terremoto di macerie senza morti ma anche senza più la speranza che sia finita, ha segnato un cambiamento, un avanzamento: è entrato per sempre in ogni parte di noi. Che eravamo a Roma, o altrove, abbastanza lontani ma comunque vicini, in una mattina di festa, quando è ancora tutto tranquillo e i bambini cominciano a svegliarsi da quel sonno invincibile e pieno che ha risparmiato loro il terremoto di agosto. Domenica scorsa i letti si sono mossi a lungo, i pupazzi sono caduti, il boato li ha spaventati, fatti piangere, e dopo un po’ chiedere, seri: posso andare a vedere se la mia stanza è crollata?
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Il terremoto, dopo questi due mesi infiniti, spossanti, è diventato anche dei bambini che non hanno mai visto Amatrice o Preci, che non hanno rischiato di morire sotto un soffitto crollato, che sono vivi e hanno una scuola e una casa e però domenica mattina cercavano le crepe nuove nei muri e chiedevano: ma adesso torna? ma è stato più di sei? Più di sei, è il numero che hanno imparato a scuola o ascoltato nei discorsi degli adulti, più di sei vuol dire sempre qualcosa di brutto. Così adesso loro si alzano dal letto e vanno da soli a mettersi sotto un tavolo, sotto l’arco di una porta, si vestono veloci, afferrano qualche pupazzo, urlano: non con l’ascensore. C’è un mostro che esiste davvero, nessuna madre rassicurante potrebbe più mentire dicendo: non arriverà mai qui; perché domenica il mostro ha spostato il tavolo, ha fatto ruggire il letto, sono caduti i libri e i lampadari dondolavano forte. I bambini ora sanno anche che questo mostro ritorna, non gli importa niente delle persone che non ce la fanno più, del freddo, dello sconforto di chi domenica ha pensato: non tornerò mai a vivere là, né delle famiglie che litigano perché ogni scossa diventa la prova di una colpa o di una scelta sbagliata.
Così anche nella distanza, e nella sicurezza che non può mai convincerci fino in fondo, i bambini hanno fatto conoscenza con il terremoto: lo descrivono ai parenti al telefono, lo disegnano, lo giudicano, e purtroppo lo aspettano. La differenza è che adesso sono convinti che tornerà. Guardano con sospetto chi scuote la testa e dice di no, guardano il lampadario in cucina, vogliono una torcia accanto al letto, anche piccola, un portachiavi con la luce può bastare, e pensano al gatto, ai pesci, architettano fughe complicate in cui tutti i giocattoli vengono messi in salvo, creano protezioni per il palazzo con la spada laser. Fanno domande difficili sui bambini che vivevano nei luoghi dove il terremoto si accanisce, e hanno una certezza nuova, indimenticabile, che li porta via dall’infanzia: sanno che cosa si sente quando la terra trema. Quel che succede ai muri, agli occhi dei genitori, al silenzio della domenica mattina. Si sentono più coraggiosi, e lo sono davvero.
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