Il dibattito sul referendum deve uscire dal balletto fra le élite (e dalle beghe interne del PD)
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Ci sono solo sei settimane di tempo per cambiare registro, lasciar perdere le dispute interne alle élite politiche o culturali e dare un carattere popolare alla battaglia per il cambiamento della Costituzione
di Sergio Soave, Italiaoggi 12.10.2016
La riunione della direzione del Pd ha messo in evidenza il clima di assoluta sfiducia che domina i rapporti tra la maggioranza renziana e quella parte della minoranza che continua a tifare per la sconfitta del referendum. Il compromesso proposto dal premier, una commissione per produrre una proposta di modifica della legge elettorale che, dopo il referendum, sarà sottoposta al parere delle altre forze politiche, non è servita e non poteva servire a recuperare l'unità. Ormai il messaggio lanciato dai bersaniani, quello di invitare gli elettori a votare no, è stato lanciato e non può essere ritirato con qualche efficacia.
Quindi quello che si è visto è solo un tentativo reciproco di attribuire la responsabilità dell'inevitabile rottura agli avversari.
Si tratta di un'operazione sostanzialmente inutile e che potrebbe rivelarsi dannosa, soprattutto per Renzi. Si è messo in primo piano il dibattito, terribilmente astruso, sulla legge elettorale, mentre le ragioni del mutamento costituzionale vengono messe in ombra, si mette al centro dell'attenzione il rapporto tra le correnti del Pd e si sposta ai margini l'impegno per ottenere una relazione feconda tra il partito e l'elettorato. La conseguenza è che ormai tutti si interrogano su come si potrà gestire un risultato negativo del referendum, mentre il confronto sul merito del quesito viene lasciato alle dispute tra costituzionalisti, che naturalmente interessano solo una fascia ristrettissima di persone.
Ci sono solo sei settimane di tempo per cambiare registro, lasciar perdere le dispute interne alle élite politiche o culturali e dare un carattere popolare alla battaglia per il cambiamento della Costituzione.
In realtà il partito democratico è impegnato quasi ovunque, nel Nord e nel Centro, a sostenere le ragioni del sì, il che potrebbe dare qualche risultato nonostante la debolezza dell'organizzazione, che resta però l'unica davvero ramificata sul territorio (insieme alla Lega che però è in realtà poco mobilitata sul referendum).
Da Roma in giù, invece, il Pd ha perso largamente i rapporti con la popolazione o li gestisce, come in Puglia, in chiave antirenziana. È lì che si dovrebbe concentrare l'iniziativa per il sì, che deve sormontare una specie di nuovo meridionalismo antiproduttivo e antimoderno che rischia di diventare senso comune. In ogni caso, visto che decideranno milioni di elettori, l'iniziativa politica e la propaganda referendaria devono rivolgersi alla sensibilità popolare, che non ha quasi niente a che fare con le questioni di cui si è discusso in modo cifrato (con poche eccezioni come quella di un redivivo Piero Fassino) nella direzione del Pd.
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