Lutto e speranza di una tragedia che gli sciacalli regolarmente avviliscono

Qualcosa è cambiato. Certo la chiacchiera accusatrice è sempre lì dietro l’angolo, l’impulso dissolutivo resta forte, si aspetta il momento in cui si potrà finalmente gridare di chi è la colpa del terremoto. Eppure…

di Giuliano Ferrara | 28 Agosto 2016 ore 06:18 Foglio

Qualcosa è cambiato. Certo la chiacchiera accusatrice è sempre lì dietro l’angolo, l’impulso dissolutivo resta forte, si aspetta il momento in cui si potrà finalmente gridare di chi è la colpa del terremoto, quale costruttore, quale geologo, quale sindaco, quale cosca criminale o lobby o cricca impiccare alle sue responsabilità per una tragedia che si poteva prevedere, che si poteva e doveva prevenire, e la politica statene certi tornerà a fare la sua parte in commedia di vittima sacrificale dei mass media e della loro vergine, castale, sacerdotale capacità d’indignazione e di condanna profetica. Eppure al Corriere e al Messaggero quel titolo è provvidenzialmente scappato, a tre giorni dalla notte del terremoto: un titolo a piena pagina non sui morti, sui seppelliti vivi, ma sui salvati, sui disseppelliti dalle centinaia di soccorritori che avevano, come abbiamo visto tutti in tv o nei luoghi del disastro, un’aria decisa, professionale e insieme umanitaria e devota, e giustamente sono considerati angeli e portatori di luce nel buio fitto del terremoto.

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Piano piano ci si è accorti che a Norcia gli interventi antisismici erano stati fatti, e il paese ha retto, ma non si può dire lo stesso della scuola elementare di Amatrice, pure quella antisismica ma crollata. Dunque anche la realtà tecnica è contraddittoria, non ci si può improvvisare sputasentenze e ingegneri in poltrona. Va bene, ci sono gli esempi virtuosi, per esempio il Giappone, ma lì fino a poco fa le maestranze entravano al lavoro cantando l’inno aziendale, e il controllo sociale del territorio e del popolo ha qualcosa di religioso se non di magico. Per dimettersi, l’imperatore chiede il permesso ai sudditi, e questi sotto sotto, perché è proibito apertamente, lo considerano un dio. Niente come i sussulti della terra e l’impatto che hanno ci parla di geografia e di storia del mondo, e noi sempre a rivoltolarci nelle certezze indignazioniste. Me la presi anche con quel sant’uomo di Berlinguer, che dopo il terremoto dell’Irpinia si fidò di dire che i mezzi di soccorso erano arrivati dopo i giornalisti, e io scrissi all’Unità che con tutto il rispetto per i colleghi e per il compagno segretario, era diverso raggiungere Sant’Angelo dei Lombardi con un taccuino o con un bulldozer.

Anche quella volta il sisma cambiò la politica italiana. Finì nelle macerie della povera Irpinia una grande politica di unione nazionale delle forze popolari, in un clima di sfiducia e di inciprignito pessimismo. Quello di Gibellina e Partanna, invece, aveva generato, affacciato com’era sull’anno 1968, un caso mitico di mecenatismo e di dispiegata bellezza e di ricostruzione ex novo della comunità, con il Cretto di Alberto Burri, formidabile monumento che dà consistenza di bellezza alle macerie e ai luoghi in cui si erano sfarinate vita cultura e memoria. Della classe dirigente facevano parte allora tipi alla Ludovico Corrao, il sindaco e politico indimenticabile; erano poeti della vita civile non mestieranti da conferenza stampa, e ancora oggi c’è chi non sa che al posto di Gibellina c’è un monumento en plein air moltiplicato per cento e che Gibellina la nuova è un caso fantastico di ricostruzione dall’infinità della miseria alla dignità comunitaria, con i suoi 30 metri quadrati a testa e la torre civica di Alessandro Mendini e la città di Tebe di Pietro Consagra, il museo disteso contro il cielo tra i più belli del mondo. Giustamente, il manufatto diffuso mezzo secolo dopo è mal conservato: bisognerà trovare i soldi per un poco di manutenzione, ma senza esagerare, quell’arte non è fatta per la vetrina ma per il vento, la pioggia, il caldo, le erbacce e un tanto di incuria del tempo che scorre. E bisogna aggiungere le più recenti virtù di Gemona nel Friuli, la compostezza da manuale degli emiliani di Mirandola o quella degli aquilani che hanno vissuto abbastanza confortevolmente nelle città prefabbricate orbitanti intorno al vecchio centro e dopo sette anni, che non è una vita ed è un tempo accettabile, stanno completando il lavoro dei cantieri di ricostruzione: ce l’hanno fatta dopo anni di parlottio bugiardo su ruberie e mascalzonate, che non mancano mai e sono la quota come sempre polposa ma limitata da pagare all’esistenza del male e della grettezza, non fosse che poi c’è la quota ampia della demagogia e dello strumentalismo degli sciacalli che sono sempre pronti a scordarsi, perché loro conviene, di quanto siamo capaci di fare quando la terra trema.

Categoria Italia

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