Gli eurocrati almeno hanno un progetto imperfetto, le élites del “vaffanculo” no

I leader non deridano il popolo sovrano, ma non è compromettendosi col disordine locale che si corregge il disordine globale

Matteo Salvini e Marine Le Pen (foto LaPresse)

di Giuliano Ferrara | 01 Luglio 2016 ore 06:18 Foglio

D’accordo, caro Ernesto, le élites europee sono antipatiche, sommamente lo sono quelle politicamente corrette e di sinistra, e non ha molto senso che ora deridano il popolo bue elettore e le sue idee e tenaci posizioni politiche, considerandole fantasiose scemenze da asini. Ora che quelle idee hanno acquisito per la prima volta in un paese importante, via referendum, una maggioranza strategica per un “no” strategico. Troppo facile. Pacchiano. Insalubre ragionare a quel modo. Arrivasse anche Trump, tra quattro mesi, il tutto diventerebbe addirittura grottesco. Ma bisogna aggiungere qualcosa.

La santa furia popolare o populista non ce l’ha su con quelli delle élites che stanno a sinistra; anzi, a sinistra pullulano gigioni e imitatori assetati di emulazione che vorrebbero mettersi in trincea, più vigorosamente ancora di quanto non facciano i populisti cosiddetti, per condurre la guerra alla globalizzazione, al “Minotauro globale” (Varoufakis) che si mangia i giovani offertigli in superstizioso sacrificio dai mercati. Bersagli dell’ira funesta, generalizzata e perfettamente trasversale, sono anche Monti, Cameron, Rajoy, Angela Merkel, Renzi, Juppé, Valls, Macron, Hillary Clinton e molti altri che si presentano come conservatori o riformisti, una destra intelligente o la destra della sinistra, centristi, tecnici, spesso persone serie, responsabili, competenti e non profeti insulsi di un mondo nuovo che non c’è o cantori del domani.

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Qui abbiamo sempre fatto strame degli snob di sinistra e del loro baffo moscio. Per vent’anni, pur di non entrare in quell’ammasso identitario, pur di non darla vinta al conformismo di sinistra, abbiamo valorizzato con gusto e rapinoso piacere anche la plastica di Berlusconi, che a te sembrava un’indecenza, con tutte le tue ragioni da noi non condivise. Il quale Cav., lo si ammetterà, è stato l’avanguardia, l’anticipazione di un fenomeno di rigetto dell’establishment, ma con modi di tendenza riformatrice e liberale, per quanto a volte mattoidi, mai con l’animalesca distruttività e l’impronta francamente ribalda e moralmente secessionista di un Farage, di una Le Pen, di un candidato della Casaleggio & Associati, di un Trump e di uno scroccone di photo-op. come il Salvini. E questo per il passato, per evocarlo senza faziosità, senza volersi vendicare polemicamente nell’ambito di un lungo e tenace dissenso. Per significare quanto sia difficile vivere da intellettuali, o intellettuali giornalisti come tu scrivi nel Corriere, senza incontrare severe contraddizioni ed essere talvolta messi in condizione di giudicare un’asineria fenomeni politici da comprendere, con i quali fare i conti per via di intuito e spirito libero da pregiudizi. Ma lasciamo stare e veniamo al dunque, all’ora.

Ora sappiamo tutti di vivere certo nella democrazia dei numeri, cinquanta virgola zero uno fa maggioranza politica e in caso di referendum fa decisione, ma non è obbligatorio pensarla come nella democrazia ciudadana di Zapatero, per cui quello che pensa la maggioranza è giusto. Le élites devono conformarsi ai numeri della democrazia e recuperare una distanza dal sentire comune espresso in maggioranze, d’accordo, e a nessuno dovrebbe essere consentito tanto facilmente, al riparo da critiche anche radicali come le tue, mettersi fuori e disprezzare la volontà del popolo.

Che la “sovranità” nella Costituzione più bella del mondo appartenga al popolo lo sapevamo bene dai tempi del ribaltone, congiura delle élites parlamentari e presidenziali contro Berlusconi, contro il maggioritario, contro la volontà della maggioranza. Erano tempi di relativa solitudine per noi, servi e barbari, ma bisogna ammettere che quelli come te, caro Ernesto, accettarono il dato di fatto, sì, però mugugnando e talvolta dissentendo su posizioni cosiddette terze. Adesso però non è più questione di numeri bensì di algoritmi.

Forse si può tornare indietro dall’innovazione dell’algoritmo e rifondare la democrazia come sistema di scambio basato sul baratto a chilometro zero. Forse no. Io credo di no. Bisogna sforzarsi di essere più giusti. Sì, ma lo squilibrio è parte integrante dello sviluppo, e a meno di farla facile come Papa Francesco e la sua teologia del popolo, obiettivamente l’algoritmo del finanziario e della comunicazione ha liberato dalla povertà un sacco di gente, ed è dai mercati aperti e numerico-algoritmici che possiamo aspettarci di vedere imburrato il pane dalla parte giusta per le generazioni attuali e future. Questa cosa, che suona come una “depoliticizzazione della democrazia”, quindi suona male per i retori di ogni latitudine, è un dato di fatto. Ne parlava il vostro Monti (vostro in senso corrierista e bocconiano) quando faceva quei disegnini sulla lavagnetta e con cadenza monotona proponeva una matematizzazione del discorso politico, con una pedagogia che suonava alla fine antipatica e una punta autoritaria. In politica Monti ha sbagliato di brutto, e ti credo, la sua democrazia dei numeri e dell’emergenza ne era la negazione incarnata. Ma un giudizio equanime non può sorvolare sul fatto che gli eurocrati un progetto imperfetto, da riformare, ce l’hanno, mentre le élites del “no” e del “vaffanculo” hanno fiato per i polmoni, forza propagandistica, capacità rappresentativa delle paure diffuse, ma progetti zero. La politica senza algoritmi ha delle voglie e delle pulsioni che possono portare fino a Virginia Raggi, e ora la fascia tricolore spetta a lei per la splendida virtù dei numeri, ma non è  svirgolando e compromettendosi con questo nuovo disordine locale, questa risorgente tendenza a difendersi dal sistema mondiale dei mercati con la restaurazione del feudo o della provincia, che si corregge l’ordine globale.

Categoria Italia

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