I giovani sconfitti non sono a Londra, ma in Italia

Crollo del reddito, aumento della disoccupazione e del divario intergenerazionale, ecco cosa si nasconde dietro la retorica giovanilista sul Brexit in un paese su misura d'anziano

di Luciano Capone | 29 Giugno 2016 ore 15:04 Foglio

​Roma. Le disamine sul voto britannico hanno descritto il referendum sulla Brexit come una guerra generazionale da cui i giovani sono usciti sconfitti. Se il Regno Unito esce dall’Unione europea è colpa dei vecchi ignoranti, nazionalisti e anche un po’ razzisti che votando per il Leave hanno deciso per il futuro di giovani istruiti e cosmopoliti favorevoli al Remain. Sono fioccate così le analisi sulla sconfitta della “generazione Erasmus”, sui giovani che sopporteranno le conseguenze di scelte prese da altri e proposte audaci per superare il principio democratico “una testa un voto” al fine di dare maggior potere politico alle nuove generazioni, dall’abolizione del diritto di voto negli ultimi 18 anni di vita (come nei primi 18) fino al voto ponderato (assegnare agli elettori più giovani un voto con un peso maggiore, in pratica un diritto di voto che invecchia e si degrada con il suo titolare). I dati sull’affluenza però ci dicono un’altra cosa. Perché se i giovani che hanno votato si sono espressi nettamente per il Remain, in realtà la stragrande maggioranza non è affatto andata a votare, visto che l’astensione che tra i più giovani è stata il doppio di quella tra i più anziani.

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I giovani non erano motivati o interessati al quesito, come mostra il caso emblematico delle decine di migliaia di ragazzi teoricamente europeisti che hanno preferito divertirsi al festival musicale di Glastonbury piuttosto che andare a infilare la scheda nell’urna. Come mostrano anche i dati del Financial Times, l’affluenza aumenta all’aumentare dell’età. E non si tratta di un trend inglese, ma di una tendenza nota e comune a gran parte delle democrazie occidentali, in cui i giovani vivono un ruolo marginale nella società: sono disoccupati, non hanno welfare, trovano lavori precari e con salari bassi, si sposano tardi, non riescono a comprare casa e partecipano meno alla vita politica perché non hanno interessi da difendere e vedono il processo come un gioco truccato.Sorprende quindi così tanta attenzione al futuro dei giovani britannici da parte dei commentatori e della classe dirigente di un paese, l’Italia, i cui giovani fuggono proprio verso la Gran Bretagna per trovare condizioni migliori. Sorprende la fiammata di giovanilismo nel paese che da mesi discute di prepensionamenti, di come smantellare la riforma Fornero e di cosa pensano i partigiani dell’Anpi sul referendum costituzionale, mentre da anni scarica il peso della crisi economia sui giovani. Qualche dato aiuta a capire come in questi anni sia cresciuto il divario intergenerazionale.

 L’indagine sui “Bilanci delle famiglie italiane” della Banca d’Italia mostra come la crisi economica abbia riportato il reddito medio familiare ai livelli del 1995, ma anche come questo aggiustamento sia stato scaricato tutto sui giovani, visto che in 20 anni il reddito medio degli over 65 è aumentato di circa 18 punti mentre quello degli under 34 è sceso di 11. L’aumento della disuguaglianza tra generazioni è ancora più evidente per quanto riguarda la ricchezza media che, sempre secondo Bankitalia, dal 1995 è aumentata del 60 per cento per gli over 64 ed è diminuita del 60 per cento per gli under 34. La stessa dinamica si registra per le persone a rischio povertà ed esclusione sociale, che sono naturalmente aumentate con la crisi. Ma a differenza di quanto si è portati a pensare dai media, l’identikit del nuovo povero non corrisponde a quello del pensionato che raccoglie gli avanzi al mercato, ma al giovane con meno di 35 anni con lavoro autonomo, precario o in cerca di occupazione e magari con famiglia a carico. Se negli ultimi 20 anni è diminuita la quota di over 64 che vivono sotto la soglia di povertà, quella degli under 34 è schizzata verso l’alto. E non potrebbe essere altrimenti in un paese che, secondo i dati del rapporto Ocse sulle pensioni, ha la spesa pensionistica (circa il 16 per cento del pil, il doppio della media Ocse) e la pressione contributiva (33 per cento del salario) più alte del mondo. Quando la crisi ha prodotto i suoi effetti sul fronte occupazionale, i costi sono stati scaricati sui più giovani che, senza le tutele dei più anziani, hanno perso il lavoro (la disoccupazione giovanile, anche se ora è in leggero calo, negli ultimi dieci anni è raddoppiata). Allo stesso modo l’aggiustamento fiscale negli anni dell’austerity è avvenuto spostando risorse dai giovani ai più vecchi, in un sistema in cui, secondo l’Istat, l’84 per cento delle prestazioni assistenziali va agli anziani.

Anche il programma Garanzia giovani, finanziato con 1,5 miliardi dall’Unione europea per dare un lavoro agli under 30, si è rivelato un flop. Secondo i dati Isfol, dopo due anni su circa 1 milione di iscritti hanno trovato occupazione solo 188 mila (ma 50 mila lo hanno trovato per conto loro). E le altre idee in campo per aumentare l’occupazione non vanno oltre la “staffetta generazionale”, una proposta che usa il pretesto dei giovani in cerca di lavoro per aumentare il numero di pensionati di cui dovrà farsi carico chi resta a lavorare. Così annegano i giovani, in un mare di retorica finto giovanilista. Ci mancava solo la Brexit.

Categoria Italia

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