Il pane e le rose. Ecco il ritorno della madre perfetta
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di Annalena Benini | 03 Giugno 2016 ore 15:55 Foglio
Arrivata davanti all’ingresso del teatro le ho viste, riunite in piccoli gruppi, l’aria euforica e sicura di chi non ha scordato niente, e i fiori in mano. Io non avevo fiori (per le bambine alla fine del saggio? Per ringraziare le maestre di danza? O erano regali dei mariti, dei fidanzati, degli amanti?) e in mano stringevo solo un biglietto trovato sul parabrezza del motorino: ma come parcheggi merda merda merda merda.
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Le madri perfette, a guardarle così, con il sole ancora alto perché è quasi estate e ai saggi di fine anno si arriva in anticipo e fiduciosi che questa volta non si uscirà a notte fonda, con i capelli vaporosi, i selfie, i mazzi di fiori e la merenda pronta per tutti contro i cali di zuccheri sul palco, sono belle, vicinissime, moderne e raggiungibili. Spesso mi salutano, e io sono contenta. L’ultima volta che ho chiacchierato con una di loro, davanti a scuola, dopo mezz’ora ho comprato una macchina per fare il pane in casa. E’ stato un bel periodo quello, ed era un pane davvero buono: mio marito era contento, diceva a tutti che facevo il pane in casa (anche se le vere madri perfette non usano la macchina ma le mani), i bambini erano contenti e lo dicevano ai loro amici (chiedo scusa alle altre madri non perfette se si sono sentite tradite, questa storia è per loro). La sera prima di andare a dormire mettevo la farina, l’acqua, il latte, il lievito e sceglievo la funzione notturna. La mattina ci svegliavamo con il profumo del pane. Avevo comprato molte farine, anche integrali, e molte marmellate da mettere sul pane caldo, che la sera a cena era ancora buonissimo. Tenevo, dentro barattolini colorati, i pinoli, le uvette, i semi di sesamo anche se non mi è mai piaciuto il pane al sesamo. La quarta mattina avevo già deciso di mettere su Instagram una foto di questa perfetta felicità, perché sentivo di essere passata dall’altra parte, ed era accaduto anche piuttosto facilmente: la perfezione materna era un mio diritto, me l’ero meritata con la macchina del pane. Le merendine, tutte uguali nelle confezioni trasparenti, mi mettevano a disagio, perché nelle istruzioni della macchina avevo scoperto la funzione: brioches. Sapevo di poterci arrivare. Basta davvero pochissimo a illudersi di avere passato il confine, basta un quasi nulla per guardare il mondo con lo sguardo di chi, comunque, qualunque cosa accada, fa il pane in casa. Ho pensato molte cose pericolose in quel periodo, compresa quella di portare il pane fatto da me a una cena di amici, al posto del vino. E stavo per fotografare il tavolo della cucina con le tovagliette e le tazze e le marmellate e un crescente senso di bravura, ma il pane quella mattina è uscito strano. Dentro era crudo, e non aveva lievitato. Che cosa ho sbagliato? Mio marito era deluso ma ha detto: non importa, i bambini erano felici di mangiare Baiocchi, Gocciole, Plum Cake, Kinder Delice, io ero delusa ma non l’ho mostrato, ci ho riprovato la sera stessa, con più attenzione. Quella notte mi sono svegliata, nervosa, e ho pensato una cosa soltanto: chissà se ha lievitato. La mattina c’era il profumo per casa, anzi ho sentito che qualcuno diceva: che buon profumo di pane, sono corsa a tirarlo fuori dalla macchina ma prima l’ho guardato dalla finestrella con apprensione. L’ho capito subito: non aveva lievitato. Ho aperto la macchina, sentendola già nemica, ho preso in mano questa palla di pane duro fuori e crudo dentro, anche brutto da guardare, così bitorzoluto, e l’ho fissato, gli ho parlato, gli ho chiesto: perché? Perché non lieviti, perché mi fai questo, perché, se ho seguito tutte le istruzioni e sono stata brava e ho comprato anche i semi di sesamo (lo odio, il pane al sesamo, non lo posso vedere), mi stai dicendo che devo tornare dall’altra parte, che non posso stare con le madri perfette? Il pane non ha risposto, forse perché non aveva lievitato, e allora l’ho buttato nella spazzatura. Essendo pesantissimo, per tutto quel non lievitare, ha fatto un gran rumore. La sera ho finto di dimenticarmi, poi ho detto che comunque in generale i lieviti fanno malissimo, poi siamo partiti per due giorni e in albergo c’era una macchina per fare i pancakes e io sono riuscita a fare un pancake un po’ bruciato e storto ma mia figlia sembrava entusiasta, e se fossimo rimasti in quell’albergo per un mese sono sicura che avrei imparato a fare anche i pancakes. Tornati a casa, ho visto la macchina del pane, con la spina staccata dalla corrente, e sono diventata subito molto nervosa. Evitavo di passarci davanti, fingevo che non esistesse, non pronunciavo più la parola pane per paura che mi chiedessero di farlo ed ero molto indaffarata con altre cose importanti. Fino a che ho detto, a voce alta e stridula: la sposto un attimo. Sono salita su una scala e ho messo la macchina del pane in un posto praticamente irraggiungibile anche dallo sguardo, sopra gli armadietti della cucina. Accanto alla macchina per fare le centrifughe di frutta e verdura, di cui non voglio parlare qui perché è davvero troppo umiliante.
Valerio Giuli, 4 anni
Quel periodo così bello è finito, ho ricominciato a comprare il pane, fresco, confezionato, taralli, cornetti, grissini, fette biscottate, anche panini surgelati da mettere in forno, e non ho mai più pensato alla macchina per il pane lassù, fino a quando ho letto su le Monde, tre giorni fa, un lungo articolo minaccioso, intitolato: il ritorno della madre perfetta. Secondo le Monde, è in atto una specie di remake in chiave moderna, libera e sexy della casalinga anni Cinquanta: fra le altre cose (tecnologia, social network, passeggiate nei boschi, yoga, tappeti berberi, divani scandinavi e mariti meravigliosi che apprezzano le passeggiate nei boschi), la madre perfetta compra fiori freschi e fa il pane in casa. Dice il giornale che queste madri sono dappertutto, ma soprattutto sono ai saggi di fine anno. Non si annoiano mai, non pensano mai: quanto ballano male queste bambine, non fantasticano un falso allarme bomba al secondo atto del saggio, quando è evidente che le canzoni di “Cats” non finiranno nemmeno la notte, nemmeno il giorno dopo, e che resteremo lì per sempre, e i fiori appassiranno e i fratelli in platea tireranno calci a tutti e cresceranno rissosi e claustrofobici (i mariti, seppur meravigliosi, hanno detto: vado un attimo in bagno, ma non sono più tornati, e adesso sono rimaste incollate alla sedie solo le madri, e anche i nonni molto anziani, che fanno più fatica a muoversi). Ma forse, insinuava le Monde non io, per la maggior parte del tempo le madri perfette fanno finta.
Con questo stato d’animo, speranzoso e sconfortato insieme, sono arrivata davanti al teatro e ho salutato, pur non essendone degna, le mamme perfette nei piccoli gruppi ordinati. Non hai i fiori? C’è un fioraio laggiù all’angolo, forse fai in tempo ma ha fiori un po’ banali. Senza fiori, ho sorriso per tutte le trentanove ore del saggio, non solo durante i cinque minuti in cui ha ballato mia figlia, e ho applaudito tutte le bambine, anche quelle troppo alte che hanno coperto i cinque minuti di mia figlia. Mi ero rassegnata a una vita dentro il teatro, con i pasti serviti dalle maschere durante brevi intervalli, quando ho visto accendersi il telefono silenziato. Era il messaggio di una delle madri perfette, che mi scriveva dal suo palco d’onore addobbato di fiori non banali. Ho pensato che avevo dimenticato di pagare il regalo a qualche maestra. Invece no. “Se non finisce mi do fuoco e mi butto dal palco”. Più di ogni dichiarazione d’amore, quel messaggio mi ha ridato fiducia negli esseri umani. Ho giurato quindi che, se uscirò da qui, andrò a casa e riproverò a fare il pane.
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