Cambiamo l’Italicum in nome della nuova Costituzione, dice Zanetti
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Il progetto del viceministro dell’Economia: costruire in Italia “il partito liberaldemocratico che manca”
di Marianna Rizzini | 03 Giugno 2016 ore 10:32 Foglio
Roma. Enrico Zanetti è il viceministro dell’Economia del governo Renzi che sul referendum costituzionale sarebbe disposto ad aprire a modifiche sulla legge elettorale pur di compattare e far vincere il fronte del “sì”, ma è anche il segretario nazionale di Scelta civica, partito nato con la discesa in campo di Mario Monti e via via segnato da una certa diaspora di parlamentari. Ora Zanetti rilancia con un progetto: costruire in Italia, dice, “il partito liberaldemocratico che manca”, motivo per cui lunedì scorso, a Bruxelles, ha incontrato Guy Verhofstadt, leader dei liberaldemocratici europei, per esporgli la sua idea di un “percorso politico che ha preso l’avvio dal congresso di Scelta Civica e che oggi ha i suoi pilastri sul territorio, con oltre 60 liste presentate con la rete ‘Cittadini per l’Italia’ nei comuni sopra i 15 mila abitanti”. Nel nome e nella sostanza, i “Cittadini per l’Italia” si richiamano ai Ciudadanos spagnoli e fanno leva sulla società civile. Poi c’è il Parlamento italiano, dove, dice Zanetti, “ci sono forze interessate a questo percorso e che, con Sc, possono diventare la piattaforma di un processo costituente per un Cantiere dei moderati, riformisti e liberaldemocratici”.
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“Non è una mera fusione di gruppi parlamentari”, dice Zanetti per rispondere a chi, in questi giorni, gli ha chiesto non senza malizia: “Ma allora farete un gruppo unico Scelta civica-Verdini?”. “Al progetto possono aderire tutti”, dice Zanetti: “Pensiamo a un partito liberal-democratico che riunisca il riformismo laico, liberale e repubblicano e il riformismo cattolico, e che in Europa trovi nell’Alde il suo riferimento, anche perché il Ppe è altamente conservatore, mentre il centro che noi vogliamo costruire è riformista e come tale liberaldemocratico nelle sue due componenti: quella laica, liberale e repubblicana e quella cattolica, liberale e riformista. La missione di costruire questo centro se l’era data Sc, ma da un punto di vista politico è fallita: il gruppo dirigente, nei primi due anni, ha privilegiato i destini personali a una costruzione faticosa ma necessaria ‘dal basso”. “Un processo di questo tipo”, dice Zanetti, “ha bisogno di coordinate, di spunti e di una carta dei valori, e deve restare fuori dalla dinamiche partitiche”. In questo quadro si inserisce anche la partecipazione di molti deputati di Sc a un convegno organizzato a metà giugno dalla Fondazione Einaudi sulla tradizione liberaldemocratica nel sistema politico italiano. “Dentro e fuori le istituzioni i tempi sono maturi, c’è interesse nel mondo accademico e politico”, dice.
Sul fronte referendum, Zanetti ha sempre visto l’eccessiva personalizzazione della campagna per il “sì” come “un regalo al fronte del no”: “Metterci la faccia, mettere la fiducia in alcuni passaggi, dire ‘se la riforma viene bocciata me ne vado’, è serio e apprezzabile, ma dirlo una volta basta e avanza, sennò rischi di diventare un autogol”. Ora che Renzi, dopo aver addolcito i toni per qualche giorno, ha nuovamente rilanciato (ieri anche su queste colonne), Zanetti dice: “Concentriamoci sul merito e ricordiamo che questa riforma ha tre pilastri fondamentali: la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto e la riduzione dei conflitti di competenza stato-regioni. Tre pilastri che, seppure con soluzioni tecniche diverse, erano alla base della riforma bocciata nel 2006. E se è comprensibile e logico che la riforma, oggi, incontri il ‘no’ della sinistra massimalista, della minoranza dem e dei 5 Stelle – realtà che hanno ereditato la contrarietà alla riforma da quello che era il fronte del ‘no’ nel 2006, con cui ideologicamente hanno affinità – troviamo incomprensibile e sconfortante che l’elettorato moderato possa essere spinto a votare ‘no’ da una classe dirigente che dice a parole di rappresentarlo”.
Anche se, dice Zanetti, “puntare tutto sul messaggio ‘meno parlamentari e meno costi’, come ha fatto Renzi, significa strizzare più che altro l’occhio a un elettorato leghista e grillino che è improbabile recuperare se metti sul piatto il messaggio ancora più diretto e di pancia della possibilità di mandarti a casa. Insomma, i messaggi non sono proprio azzeccatissimi, ma non votare significa perdere altri 10 anni per fare un dispetto a Renzi, come prima si voleva fare un dispetto a Berlusconi. Dal nostro punto di vista il ‘sì’ alla riforma è a prescindere. Però, proprio perché riteniamo che la vittoria del ‘sì’ sia la cosa più importante, se l’apertura a delle modifiche sulla legge elettorale può aiutare a ridurre l’ampiezza del fronte del ‘no’, allora questo tipo di aperture ci paiono ragionevoli”.
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