I limiti delle procure italiane nel fare la guerra al terrorismo
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Storia di Ayachi, il terrorista rilasciato dai pm italiani diventato predicatore della moschea di Molenbeek e ideologo dei futuri attentatori del venerdì 13 di Parigi
di Mario Sechi | 18 Novembre 2015 ore 17:09
Roma. Guanti bianchi e giustizia in bianco. Fare la guerra al terrorismo con il percorso culturale deviato del politicamente corretto, le leggi sbagliate e una magistratura devota al formalismo giuridico è quasi impossibile. Il generale Mario Mori sul Foglio ha spiegato le ragioni per cui “i servizi segreti sono stati smantellati” e tutto fila in un paese che nelle sentenze chiama i terroristi con un altro nome, “guerriglieri”, mentre Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Germania, hanno cambiato le regole di monitoraggio e ingaggio con le gang di tagliagole e predicatori con la scimitarra. Sentire il ministro dell’Interno Angelino Alfano, dopo gli attentati di Parigi, annunciare al popolo che verranno espulsi gli Imam che inneggiano all’odio fa una surreale impressione, perché questa doveva esser cosa fatta da tempo. Pare di no. Così l’Italia è un paese dove il dritto diventa rovescio e anche quando le forze dell’ordine arrestano, la magistratura scarcera.
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La storia di Bassam Ayachi è un caso da manuale, un memento sinistro: il predicatore viene arrestato a Bari nel 2008 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, viene intercettato in carcere mentre parla di un attentato all’aeroporto parigino Charles de Gaulle, l’accusa diventa terrorismo internazionale, Ayachi viene condannato a otto anni, ma nel 2012 viene scarcerato per una questione di cavilli territoriali e poi assolto. Ayachi esce di cella e lesto se ne va in Belgio dove diventa predicatore della moschea di Molenbeek e ideologo dei futuri attentatori del venerdì 13 di Parigi. Sembra la sceneggiatura impossibile di un film sulla jihad, ma è una storia vera girata sul set dell’Italia, transitata in Belgio e finita tragicamente nel sangue in Francia. Il caso Ayachi ci ricorda che prima di tutto c’è una questione culturale e di formazione ideologica che affonda le sue radici nella storia della magistratura italiana. Basta leggere le parole del procuratore Armando Spataro in un’intervista al Britaly Post per rendersene conto: “Il sistema anglosassone a mio avviso è troppo appiattito sulla logica americana della ‘war on terror’, secondo cui il terrorismo è guerra e dunque è giusto combatterlo con gli strumenti della guerra”.
War on terror. Spataro cita la frase in inglese per sottolineare una distanza, un fossato tra noi e la cultura anglosassone. Una distanza c’è, incomprensibile per molti che furono “tutti americani”: i tremila morti delle Torri Gemelle. Spataro fa riferimento costante ai diritti, alla democrazia, “perché non si può pensare che in nome della sicurezza un cittadino possa essere soggetto alla lesione dei propri diritti solo perché porta un burqa o svolge il ruolo di Imam. Altrimenti rinnegheremmo la nostra storia”. Ragionamento che non fa una piega nella visione di Spataro, ma non tiene conto della “eccezionalità” del contesto e della presenza di una asimmetrica condotta nei confini europei da cellule terroristiche dirette dall’estero come nel caso degli attentati di Parigi. Nessuno pensa che Hollande attenti alla Costituzione quando chiede di cambiare la carta fondamentale di fronte al massacro del Bataclan. Il presidente francese risponde allo stato d’eccezione chiedendo l’eccezione della norma. Durante gli anni del terrorismo l’Italia ridefinì i reati associativi, furono varate la legge Reale e la legge Cossiga. Fu questa una sospensione della democrazia? O fu il realismo della democrazia che rispondeva all’eccezionalità del contesto storico con strumenti idonei a stroncare quella che si chiamava “lotta armata”?
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