Mafia, Roma e professionisti del bidone. La comica dell’isolamento e il grottesco paragonarsi
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a Falcone e Borsellino nella battaglia contro cravattari in combutta con funzionari municipali. Prestipino e la spettacolare mascherata dei nuovi crociati antimafia
di Giuliano Ferrara | 24 Giugno 2015 ore 06:12 Foglio
Il procuratore è ascito pazz’: dovrei cominciare così il mio commento a un’incredibile intervista al Fatto quotidiano del dottor Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma. Infatti il titolo corrisponde al contenuto, e questo è il titolo che mette il pensiero del procuratore tra opportune virgolette: “ROMA COME PALERMO ANNI 80 - NESSUNO VUOL VEDERE LA MAFIA”. Le due affermazioni infatti, e sia detto con il massimo rispetto per l’autorità inquirente intervistata, braccio destro del dottor Giuseppe Pignatone, e sia detto con il giusto timore di nuove moleste querele intese a mettermi il bavaglio, sono con ogni evidenza demenziali. Metto anch’io tra virgolette “demenziali”. Chiunque osservi lo svolgersi, dall’inizio fino alle ultime curve, dell’inchiesta denominata “mafia capitale” di due cose è certo: 1) Roma è piena di buche, ma la Palermo degli anni 80 era piena di tombe, e tra i due tipi di fossa nel terreno c’è una sicura differenza di qualità (inoltre a Palermo si sentivano crepitare i mitra, qui chiacchiere telefoniche registrate ai sensi del 416 bis); 2) qui tutti, dico tutti tutti tutti, con rarissime e minoritarie eccezioni, vogliono vedere la mafia, si eccitano nel vedere la mafia per ogni dove, e telegiornali, opinionisti, giudici-scrittori, scrittori-giudici, esperti, resocontisti, cronisti, amministratori, politici e altri moralizzatori in attesa di moralizzazione, senza distinzione tra destra e sinistra, tra politica e antipolitica, sono uniti e compatti, nella capitale della mafia e sul piano nazionale, nell’offrire al pubblico la versione mafiosa della corruzione municipale e della degenerazione corrotta di una parte del sistema cooperativo assistenzialista messo in piedi con prosopopea dai soliti circoli che puntano sempre e da sempre sull’economia controllata, burocratizzata e fondata su un uso spericolato della spesa pubblica. A parte una dozzina di invettive firmate da chi scrive, e irridenti e critiche verso l’impostazione dell’indagine, si sono poi registrate tra coloro che hanno dissentito, più o meno blandamente, uno scrittore loquace in un paio di interviste, l’onorevole Emanuele Fiano del Pd ad “Agorà” (“non capisco perché Pignatone abbia voluto mettere il bollino della mafia all’inchiesta sulla corruzione”), e un magistrato della Corte dei Conti al quale pare che la mafia con quanto è successo tra una mazzetta e l’altra non c’entri una mazza. Stop.
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Accreditare, come fa il dottor Prestipino, l’isolamento in un mondo di incomprensione e di omertà del manipolo di coraggiosi che ha elevato l’accusa di mafia contro Carminati, Buzzi e soci, e suggerire espressamente che le obiezioni sono fatte per convenienza politica o altro, magari peggio, vuol dire avere smarrito completamente un uso appena decente della ragione democratica e dell’arte liberale di confrontare le proprie idee e le proprie pratiche di diritto con il diritto alla critica delle idee e delle pratiche del diritto o giurisdizionali. E questo – oltre al grottesco di paragonarsi a Falcone e Borsellino nella battaglia di ridotte dimensioni contro cravattari e malavitosi in combutta con funzionari municipali e pubblici ufficiali corrotti – è un fenomeno pericoloso. Lo ricorda nel suo splendido e coraggioso pamphlet il dottor Piero Tony, un magistrato di sinistra uscito in anticipo dalla corporazione per gridare la sua verità contro l’omertà (quella vera), dopo essere stato insignito da Indro Montanelli della palma di miglior oratore forense d’Italia: Tony, che non è uno dei Sopranos, parla di inchieste reportage, di vanità e protagonismo di molti colleghi e di tendenza sistematica a calpestare le norme e la cultura del diritto da parte di avanguardie fanatizzate della giustizia spettacolo alleata del sistema dei media, e scusate se è poco.
L’intervista del dottor Prestipino dovrebbe ristabilire la verità dei fatti, e i fatti consisterebbero nell’aver egli scoperto, insieme con i suoi colleghi e il suo capo, che annunciò la buona nuova in anticipo a un convegno del Partito democratico di Roma, una sorta di originalissima mafia alla romanesca, diversa dalla mafia palermitana o corleonese (bontà sua) ma analoga ad essa dallo stesso metodo violento e ricattatorio nella collazione dei benefici corruttivi. A sostegno di quanto detto si portano sentenze e verdetti della Cassazione, e altri spunti investigativi su fenomeni di criminalità minore e media che sono da sempre lo sfondo della criminalità comune e della sua pretesa di mettere in soggezione o di intortare chi può consentire l’appalto lucroso o determinare il prevalere di un gruppo sull’altro. Mancano le famiglie, il controllo del territorio, le armi, i morti a catena, le guerre urbane, il linguaggio, le tradizioni criminali di Cosa nostra nella Sicilia anni 80; mancano i grandi malloppi, il sacco dell’Urbe come il sacco di Palermo, mancano i requisiti minimi per l’accusa di associazione mafiosa ex 416 bis, manca tutto, mancano per l’appunto i fatti, ma non la buona volontà di inquirenti e giornali da sbarco inquirente nel fare di Roma una Capitale della mafia, nel tappare la bocca a chi dissenta anche con mezzi ricattatori come le querele e l’accusa di complicità o connivenza o collusione, nella pretesa di vedersi convalidare uno statuto speciale e carriere speciali.
Lo dico da romano di tre generazioni, da virgulto invecchiato di una famiglia di specchiata onestà (chissà perché si dice “specchiata”) e di matrice liberale e comunista, lo dico da persona libera che usa il cervello, quando gli funzioni, per cercare di capire la realtà con la chiave di volta del senso comune o del buon senso comune se preferite: questa inchiesta sa di politica, il che è già una critica radicale, ma sa anche di eccesso mediatico, di complicità con le procedure di formazione e deformazione dell’opinione pubblica, di protagonismo impazzito della vanità personale e di gruppo. Non posso escludere che ci sia perfino un elemento di buona fede, cioè di ignorante presunzione di aver saputo vedere la mafia dove non c’è, con autentica vocazione a scambiare i dati della realtà e a prendere fischi per fiaschi, ma questa è solo un’aggravante. Quando insultano i due o tre che non vogliono vedere la mafia, e lo fanno per convenienza o per calcolo, mentre pratiche mafiose dilagano nella città di Roma, si tenta un’operazione farraginosa ma non meno pericolosa di mascariamento e di riduzione all’infamità collusa di gente perbene che ha il diritto di ripetere: quelli che avete preso sono dei corrotti, sono anche dei malavitosi e dei personaggi borderline, sono anche clan o famigliole di criminali con un insediamento territoriale, come è tipico delle forme criminali in tutte le città del mondo, e a faticare (mi voglio rovinare) troverete anche qualche parente siciliano o calabrese tra gli inquisiti, ma non sono espressione di una rete mafiosa minimamente comparabile alla Palermo degli anni 80. Se volete di forza affermare questa visione delle cose, o lo fate perché siete asciti pazz’ o perché vi considerate troppo furbi, e potete farlo solo perché la consegna della ragione è rimasta a piccole minoranze intransigenti, come la nostra, nel proposito di non farsi rifilare un bidone di giustizia politica e spettacolare mascherata da crociata antimafiosa.
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