A Bolzaneto ci fu tortura, ma a Genova il finimondo. Guai a dimenticarlo
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Mise au point su una sentenza europea che non assolverà mai i responsabili di una rivolta incendiaria
di Redazione | 07 Aprile 2015 ore 13:58
Un'immagine degli scontri durante il G8 di Genova del 2001 (Foto LaPresse)
Molte grazie per l’eurosentenza della Corte dei diritti umani che riprende e sottolinea il concetto: violenza e tortura. Tanto lo sapevamo già che il 21 luglio 2001, alla caserma Bolzaneto di Genova, andò in scena una breve ma intensa macelleria no global. Sapevamo che quel maledetto G8 aveva offerto ai nostri occhi increduli anche un triste, controverso e stra processato spettacolo (con ben sette condanne passate in giudicato) così irreale e ineluttabilmente sudamericano.
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Esiste una letteratura al riguardo – rileggetevi se potete “Genova sembrava d'oro e d'argento”, pubblicato nel 2009 dall’ex poliziotto Giacomo Gensini (Mondadori) – e anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo voluto e saputo distinguere la linea invisibile che le forze dell’ordine non avrebbero dovuto oltrepassare. Fiat Iustitia, dunque, foss’anche a costo di rivedere la legislazione nazionale per meglio circostanziare il reato di tortura, se proprio necessario. L’essenziale, però, è non dimenticare tutto ciò che in quei folli momenti era già accaduto al di qua della linea. Ovvero una città, Genova, che sotto gli occhi del mondo civilizzato veniva espropriata nella sua ordinaria vita civica da una turba di uomini in nero, i famigerati black block. Con Polizia e Carabinieri impegnati ore e ore a inseguire e respingere un nemico imprendibile, fra cariche e rinculi, nel tentativo di fronteggiare un’orda furente di grida, bastoni e fiamme.
Poi la tragedia di Carlo Giuliani, con una triste e fragorosa coda di cometa stretta al collo di un giovane carabiniere impaurito e forse soltanto inadeguato, Mario Placanica, responsabile dello sparo finale contro il ragazzo armato di estintore e deciso a usarlo nel modo più cruento. Ricordiamo tutto di quel nucleo di poliziotti scelti che l’indomani avrebbe fatto irruzione nella scuola occupata Diaz, convinto di trovarci i rivoltosi nerovestiti e ormai troppo caricato a pallettoni, psicologicamente, per fermarsi in tempo.
Ricordiamo e censuriamo, ma soltanto a un patto. A patto di non asfaltare la verità storica di quel che accadde allora a Genova: lo Stato, con la S maiuscola e con tutti i suoi minuscoli servitori inadempienti (a cominciare dall’allora inquilino del Viminale), venne sfidato e aggredito a cielo aperto con il nemmeno troppo dissimulato consenso di un’ideologia altermondista che si stava trasformando in eversione impunita. Le responsabilità penali sono personali e vanno sempre enucleate dal contesto. Ma il contesto ha il diritto di emergere nella sua dimensione storica, culturale e sopra tutto politica. E noi tutti abbiamo il dovere di non dimenticarcelo. C’è un giudice a Strasburgo, certo, ma la bilancia della memoria pende dalla parte dell’ordine in divisa contro il caos in armi che fu all’origine di ogni sventura.