La battaglia anti-riforme La crisi della magistratura e la perdita del consenso: scenari apocalittici, strappi alla Costituzione, sempre il solito copione

Ed ha origine in questo sentire politico anche l’idea di non poter essere separati, per essere nel loro insieme, giudici e pubblici ministeri, indistintamente una magistratura di scopo

Francesco Petrelli 24.2. 2025 alle 16:48 ilriformista.it lettura3’

L’ANM è in crisi. Ma non si tratta evidentemente di una crisi di nervi. Vi è qualcosa di più profondo e di più grave che il duro confronto, con il mutato contesto politico, ha messo a nudo. Aveva certamente ragione Angelo Panebianco quando giorni fa scriveva che la magistratura italiana aveva commesso un errore di prospettiva in quanto, avendo “per decenni potuto constatare che facendo la voce grossa” era sempre riuscita a “bloccare” le iniziative a lei sgradite, si trova ora a dover affrontare, nelle mutate condizioni di forza, un imprevisto scontro frontale, foriero di “una dura e secca sconfitta”. Ma l’affermazione del neo Presidente di ANM dell’altro giorno a Torino supera ancora di molto questa pur giusta analisi. Quella sua improvvida esternazione sembra essere il sintomo di una crisi della politica associativa di ben più vasta portata.

Dire, a giustificazione di quella maldestra evocazione tanatologica, che si è trattato solo di una “suggestione” è troppo poco e troppo al tempo stesso. Nessuno aveva certo inteso quell’espressione come un auspicio reale. Ma proprio l’idea che si possa suggestivamente equiparare la morte violenta dei propri colleghi ad una operazione di marketing, capace di risollevare l’immagine appannata della magistratura all’interno della società, appare di per sé tanto insensato quanto agghiacciante. L’unica suggestione che una simile idea può provocare è infatti quella di uno smarrimento di senso, di un drammatico distacco dalla realtà. Come se, di fronte al cambiamento, la magistratura fosse del tutto impreparata.

Abituata nel tempo ad assecondare solo mutamenti minimi che lasciassero inalterati i propri equilibri interni, la magistratura italiana si trova ora improvvisamente in uno spazio aperto di fronte al quale sembra essere capace solo di invocare scenari apocalittici, strappi alla Costituzione, fine della giustizia e della democrazia. In vista dello sciopero programmato per la fine di questo mese, sembra che quello della “comunicazione” sia l’impegno più stringente, in un tripudio di “coccarde” tricolori e di richiami alla politica assembleare. Si almanacca su come recuperare la perdita di consenso fra gli italiani nell’ultimo sondaggio della sera, con la stessa alacrità con la quale un tempo si rifletteva sulla legittimazione del proprio potere. C’è da chiedersi dove sia finito il pensiero profondo che le correnti pure un tempo erano state in grado di produrre.

Perché quella carica propulsiva ideale che aveva nel tempo, pure nelle sue irrisolte contraddizioni, certamente contribuito alla crescita del Paese si sia spenta del tutto.

Progressivamente inaridita, così come affermato da molti, dentro e fuori la magistratura, da un correntismo che ha trasformato le correnti in comitati elettorali, votati al complessivo mantenimento degli equilibri interni all’associazione ed al CSM. Di fronte allo scandalo Palamara nessuno ha inteso prendere atto della gravità della crisi che quello scandalo portava ad emersione. Rimosso l’epifenomeno, si è ritenuta possibile una palingenesi nella quale evidentemente nessuno credeva. Nasce da questa irrisolta crisi interna l’attuale aspirazione politica della magistratura. L’idea di potersi riaffermare senza riformarsi, ricucendo l’intesa con il Paese, spolverando l’immagine di una magistratura compatta e unita contro il male.

Ed ha ovviamente origine in questo sentire politico anche l’idea di non poter essere separati, per essere nel loro insieme, giudici e pubblici ministeri, indistintamente una magistratura di scopo. O una “unità spirituale”, come auspicava Dino Grandi nella relazione al suo ordinamento giudiziario del 1941. Come si legge ancora nella mozione finale dell’ultimo Congresso della ANM, “l’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”. Si tratta, dunque, di un “valore fondante” che si sostituisce addirittura alla nostra Costituzione che, come è noto, “non contiene alcun principio che imponga la prefigurazione di una carriera unica” (Corte cost. sent. n. 37/2000).

Così dogmaticamente impostata, la questione non lascia obiettivamente spazi di interlocuzione. Questa idea, contraria alla stessa giurisprudenza costituzionale, di immodificabilità dell’assetto della magistratura italiana, rende addirittura esiziale per l’associazione stessa ogni riforma delle carriere. Al sonoro respiro riformatore, laico e trasversale si preferisce evidentemente un sordo non possumus clericale. Con tutte le conseguenze e i ritardi che si possono immaginare per la modernizzazione della nostra giustizia e della nostra magistratura.

Francesco Petrelli – Avvocato penalista, Presidente U.C.P.I.

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