Imputato a vita, la fine del principio barbaro di Bonafede e dei 5 Stelle

La riforma populista della prescrizione è stata senza dubbio una delle pagine più indecorose della legislazione nostrana degli ultimi decenni

Gian Domenico Caiazza — 31.12. 2022 ilriformista.it lettura2’

La riforma populista della prescrizione è stata senza dubbio una delle pagine più indecorose della legislazione nostrana degli ultimi decenni. Per più ragioni, naturalmente, ma una su tutte: la grossolana mistificazione politico-mediatica che l’ha accompagnata dal primo giorno. Da molti anni ormai in questo Paese si fanno sempre più eccezionali le prescrizioni di reati anche solo di media gravità.

Da un lato, le varie riforme che si sono susseguite hanno innalzato a livelli iperbolici (che andrebbero essi sì ripensati!) il numero di anni entro i quali i reati si prescrivono, con la eccezione di un pugno di reati bagatellari (soprattutto contravvenzionali) e dei reati tributari, i quali ultimi obiettivamente emergono solo con l’accertamento amministrativo, che brucia già metà del tempo di prescrizione (e anche su questo si può facilmente intervenire). Dall’altro, da almeno un paio di decenni, si è stabilito che qualsiasi ragione di legittimo impedimento a partecipare all’udienza dell’imputato o del suo difensore determinano sì il rinvio del processo, ma con contestuale sospensione del corso della prescrizione, dunque senza nessun possibile esito dilatorio.

Infine, statistiche alla mano, sei prescrizioni su dieci intervengono entro la celebrazione della udienza preliminare, dunque senza alcun possibile, materiale contributo dilatorio (che già, come ho ricordato, non è possibile) del difensore, ma solo quale conseguenza delle scelte di priorità adottate dalle Procure nell’esercizio dell’azione penale, oltre che delle obiettive carenze strutturali di magistrati e di personale amministrativo. E invece quella sciagurata riforma è stata venduta alla pubblica opinione come la fine dei privilegi degli imputati ricchi che, pagando fior di avvocati, facevano prescrivere il reato guadagnandosi l’impunità, evocando -non a caso- noti processi relativi a reati commessi venti se non trenta anni prima, sotto l’egida di un regime processuale morto e seppellito da tempo immemore.

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Il risultato di questa bravata è stato l’affermazione del principio barbaro dell’imputato a vita, prigioniero del proprio processo fino a quando lo Stato si compiacerà di concluderlo. Merito del Governo Draghi e della Ministra Cartabia, pur essendo quel governo funestato dalla maggioranza relativa grillina, è stato quello di puntare con determinazione al superamento di quella barbarie. Ma sotto la minaccia grillina della crisi di governo, si è dovuto salvare la faccia all’ex Ministro Bonafede, confermando il principio della interruzione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado.

Il prezzo è stato pagato, ricorrendo all’idea del doppio orologio: fermo quel principio, introduciamo la improcedibilità dell’azione (insomma, la decadenza del processo) ove il successivo processo di appello non si celebri in due o tre anni (con il consueto catalogo di eccezioni per i reati di mafia eccetera, cioè i soli che certamente si celebrano entro due anni, perché altrimenti verrebbero scarcerati gli imputati: ma lasciamo perdere gli aspetti comici della vicenda). Insomma, un pastrocchio gravido di complicazioni in ordine alle quali non ho il cuore di annoiarvi.

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