I danni alle istituzioni generati dal metodo Di Matteo
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Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua collettività, o se invece le organizzazioni criminali ancora riescono ad avere la forza di “ricattarci”?
di Mariarosaria Guglielmi* 12.5, 2020 ilfoglio.it lettura5’
Non bastava lo sconcerto prodotto nell’opinione pubblica dalle dichiarazioni del dottor Di Matteo. Un magistrato, noto per il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata, ora con un ruolo istituzionale quale componente del Csm, sceglie una platea televisiva – e l’inevitabile massimo clamore mediatico – per esternazioni che chiamano in causa l’attuale ministro della Giustizia (e il contenuto di un colloquio riservato), che di fatto chiedono conto delle ragioni della sua scelta per i vertici del Dap e che inevitabilmente mettono in relazione un “ripensamento” del ministro con la notizia della contrarietà dei vertici della criminalità organizzata alla designazione del dottor Di Matteo. Con le domande, fatte proprie e divulgate dal direttore di una importante testata giornalistica, che l’altro giorno si interrogava su possibili “trattative” intercorse fra lo stato e i detenuti dopo le rivolte di marzo nelle carceri e sulla relazione con le scarcerazioni disposte in questi giorni dai magistrati di sorveglianza, si completa il corto circuito innescato dalle esternazioni del dottor Di Matteo.
Per le suggestioni non esistono smentite. Le smentite vanno bene per i fatti. E non esistono argomenti per dare convincenti risposte alle domande e ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a “rimanere nell’aria”.
Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di “ricattarci” e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai più alti vertici dello stato? Come non porsi queste domande di fronte al dubbio che inevitabilmente sorge quando un magistrato mette in relazione proprio alla sua cifra professionale il fatto di essere rimasto escluso da un incarico istituzionale di particolare rilevanza? Qual è l’effetto a lungo andare di queste domande, destinate a rimanere senza credibili e convincenti risposte, perché ciò che le origina non sono i fatti (di cui si può affermare e dimostrare la verità o la falsità) ma il loro contenuto evocativo e tutto ciò che suggerisce il loro accostamento?
È stato già ricordato in questi giorni, anche dall’Anm, che dovere dei magistrati è esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che nei rapporti tra le Istituzioni. Basta essere convinti delle “proprie buone ragioni”, sia rispetto alla “verità” di ciò che si dice sia rispetto alla necessità di doverla rendere nota, per saltare a piè pari tutte le cautele che il nostro ruolo ci impone? Non dobbiamo forse chiederci, quando scegliamo la platea mediatica e il libero dibattito sulla stampa, cosa resta delle nostre affermazioni – una volta spenti i riflettori e cessato il clamore – all’opinione pubblica, a quella generalità indeterminata di persone che abbiamo scelto come nostri interlocutori ideali? Non fa parte della nostra responsabilità rispetto alle funzioni che esercitiamo, e ai nostri doveri verso la collettività, chiederci quando prendiamo la parola quale traccia vogliamo lasciare nel dibattito pubblico e in che modo, come magistrati partecipi di questo dibatto, vogliamo contribuire a quella “consapevolezza comune” che ci rende comunità? L’esigenza di dire la propria “verità” e di rimettere le “cose al giusto posto” ci libera da ogni dovere di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale, il magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in discussione, più che portatore di verità assolute?
I grandi stati d’animo collettivi, ha scritto Marc Bloch, hanno il potere di trasformare in leggenda una percezione alterata. Un rischio destinato ad aggravarsi in tempo di “guerra”. Per Bloch era il primo conflitto mondiale. Per noi è oggi la lotta contro un nemico invisibile, che non minaccia solo la nostre esistenze. È la paura che inocula in ciascuno di noi e nella comunità, rimettendo in discussione tutti i valori della convivenza civile. In questo stato d’animo collettivo, ancor più che nel recente passato, è difficile far comprendere ciò che alla magistratura è richiesto dal ruolo costituzionale di garanzia della giurisdizione, e quanto siano complesse le scelte che deve compiere. Alla magistratura di sorveglianza oggi spettano decisioni particolarmente difficili, che devono garantire un’esecuzione della pena conforme al rispetto dei principi costituzionali di tutela della salute e di umanità del trattamento, e che devono realizzare un attento bilanciamento tra il diritto del detenuto e l’interesse pubblico alla sicurezza sociale. Come magistrati siamo consapevoli della necessità di dover rendere conto dei provvedimenti che adottiamo e dell’importanza di essere chiamati a rispondere, di fronte all’opinione pubblica, del nostro operato. La voce della libera stampa è fondamentale perché questo “circuito di responsabilità”, per la magistratura come per ogni altro potere dello stato e ogni organismo pubblico, sia sempre vigile ed effettivo. La libertà di informazione è un bene prezioso di ogni democrazia: è ciò che, nel confronto fra il pluralismo delle idee, forma la sua coscienza critica e costruisce la coesione della sua collettività intorno ai valori condivisi. Ed è per questo fondamentale che il dibattito pubblico in corso riceva oggi dalla libera stampa quell’apporto di consapevolezza critica necessario per affrontare tutte le sfide che l’emergenza sanitaria pone alla democrazia.
Se i magistrati di sorveglianza diventano gli “scarceratori”, della complessità del loro lavoro e delle loro decisioni, che si devono confrontare con la storia di ciascuna persona che è dietro a un provvedimento e con i parametri di giudizio che impongono la ricerca del difficile punto di equilibrio fra tutela della salute e ragioni di sicurezza, non resta nulla. Resta la suggestione di decisioni immotivate, qualificate solo dal risultato che producono: aprire le porte del carcere, senza attenzione alle esigenze di tutela della collettività. Se si ventila l’idea di stato che tratta con la criminalità organizzata, e dei suoi giudici esecutori – imbelli o consapevoli – di un patto inconfessabile che ha barattato la necessità di riportare l’ordre dans la rue con l’alleggerimento del regime detentivo e la scarcerazione di pericolosi capimafia, di quel diritto/dovere di fare domande e di chiedere conto delle decisioni prese in nome dell’opinione pubblica non resta nulla. Resta una suggestione, che incrocia lo stato d’animo collettivo. E che può diventare, per citare sempre Bloch, la falsa notizia, specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti. Non sono le domande senza risposta ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando duramente provata dagli eventi, non può permettersi.
*Mariarosaria Guglielmi, Segreteria generale di Magistratura democratica