Così la magistratura preferisce il proprio riscatto allo stato di diritto

La parte egemone delle toghe utilizza questo momento di crisi come un'occasione per riprendersi tutto lo spazio perduto nel gradimento dell’opinione pubblica e per attuare la destrutturazione del sistema penale

di Beniamino Migliucci* 9 Settembre 2018 www.ilfoglio.it

Le democrazie costituzionali moderne si fondano su alcuni valori che la ragione è in grado di spiegare e di inserire in un sistema coerente. Democrazia, libertà, diritti inviolabili, garanzie e la ragione stessa costituiscono dunque una costellazione che ci indica la strada da seguire anche quando la via sembra smarrita. Si comprende, ora, come sia più facile, davanti ai problemi che la complessità della globalizzazione dell’economia e dei diritti ci pone, rifugiarsi nel grembo recessivo di una irresponsabile risposta emotiva. Là dove mille like sostituiscono il necessario e non sempre favorevole feedback critico, e dove l’applauso di un pubblico senza opinioni sostituisce la faticosa conquista del consenso di una pubblica opinione consapevole.

Ovvio che nel contesto comunicativo in cui la nostra società è descritta come in balìa di criminali di ogni tipo, nella quale il far-west non è quello al quale ci consegnerà una legge dissennata sulla legittima-difesa-che-è sempre-legittima, ma è quello nel quale già quotidianamente viviamo, il popolo ingannato si senta finalmente gratificato. Ed è comprensibile che, in un presente nel quale il governo dei vendicatori prospetta riforme della giustizia penale a costo zero, strutturali, risolutive, ed epocali, che faranno finalmente impallidire i criminali ed azzereranno il fenomeno della corruzione, ognuno di noi esulti come un suddito riconoscente. Ma quelli con i quali si trastulla questo goffo legislatore non sono innocui giocattoli, ma pericolosissimi dispositivi in grado di radere a zero quel poco di ragionevole che è stato costruito intorno al processo penale.

Vediamo qualche esempio. Le funamboliche ipotesi di infiltrati nelle pubbliche amministrazioni, “barbe-finte” che ripristinano nei nostri uffici modalità investigative da spia-di-condominio di sovietica memoria, sono quanto di più anti-moderno si possa immaginare. L’art. 50 della Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione, chiamata in causa a giustificazione dell’intervento, invita gli stati aderenti solo a consentire l’utilizzo della “consegna controllatache il nostro Paese ammette ed utilizza già da tempo. Quanto alle “tecniche speciali di investigazione”, fra le quali le “operazioni sotto copertura”, la Convenzione si rimette a valutazioni di “opportunità” di ogni singolo Stato. E tuttavia tali operazioni (anch’esse da tempo utilizzate nel nostro paese) sono cosa ben diversa dalla istituzionalizzazione della figura inquietante ed ubiqua dell’operatore-infiltrato negli uffici e nelle ASL. Figure destinate dunque a diffondere, contro ogni valutazione di opportunità, la cultura del sospetto, anziché quella della trasparenza e della lealtà.

L’introduzione di una ipotesi di non punibilità per chi collabora denunciando il crimine appena commesso restituendo anche il malloppo, individua un soggetto antropologicamente e criminologicamente misterioso, la cui esistenza sarà svelata solo dalle cronache future. Il fatto stesso che un simile “lasciapassare” sia escluso nel caso di “premeditati” e machiavellici progetti a danno del complice, lascia intendere quanti e quali siano i rischi inoculati nel sistema da un simile istituto.

L’inserimento dell’abuso d’ufficio fra i reati per i quali si butta-via-la-chiave è un controsenso che legittima in ipotesi anche l’inserimento del reato di danneggiamento nell’ambito di applicazione del carcere duro ex 41-bis. Gli aumenti di pena per i reati contro la Pubblica Amministrazione, spacciati per un toccasana rivoluzionario, si susseguono nel tempo di governo in governo senza trovare pace, a dimostrazione della inutilità ed insensatezza di un simile approccio. Inutili ed incostituzionali i rimedi accessori, quali il Daspo-a-vita-per-tutti-i-corrotti, perché le misure accessorie, come le pene detentive, devono infatti avere un fine ed una fine e contemplare dunque un possibile riscatto ed una riabilitazione. Così come privi del tutto di proporzione ed equilibrio, all’inseguimento di una assai improbabile “deterrenza”, gli aumenti fino a 10 anni relativi alle misure interdittive nell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti. Misure potenzialmente letali che rischiano di annichilire una solida realtà economica, anche a fronte di illeciti modesti.

Che la politica viva un momento di confusione non ci meraviglia. Quel che invece ci meraviglia e ci preoccupa è che la parte egemone della magistratura viva questo momento, non come un momento di crisi nel quale serrare i ranghi attorno allo Stato di diritto, ma come una occasione di riscatto, come un momento-magico di cui profittare per riprendersi tutto lo spazio perduto nel gradimento dell’opinione pubblica, e per attuare quella destrutturazione del sistema penale verso il quale quella magistratura vincente preme da tempo. Tuttavia, Reformatio in peius e blocco della prescrizione sono, assieme alla informe-riforma spazza-corruzione appena uscita dal Consiglio dei Ministri, non solo risposte sbagliate a problemi reali, ma piuttosto contro-riforme che prefigurano il ripristino definitivo di un processo autoritario nel quale la giurisdizione diventa l’esercizio di un atto di potere e non più un rito di giustizia. Tutto ciò dimenticando che un processo autoritario vive solo in una società che ha perso il passo e il respiro dei valori sui quali si fonda una democrazia.

*presidente dell'Unione delle Camere Penali italiane

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