Leggere "Crainquebille" per capire i danni dell’uso politico della giustizia

In edicola con il Foglio dal 9 giugno il terzo appuntamento con la collana “Liberi dal populismo”. Cinque libri per pensare in modo diverso in collaborazione con la casa editrice Liberilibri

di Carlo Nordio 8 Giugno 2018 alle 10:22    

Pubblichiamo stralci dell'introduzione di Carlo Nordio a "Crainquebille", il libro di Anatole France, edito da Liberilibri, in edicola da domani con Il Foglio

L’essenza dell’opera d’arte risiede nella sua inesauribile vitalità. Non solo perché resiste all’erosione del tempo, ma perché suscita continuamente nuove e improvvise intuizioni, che tuttavia sarebbero sterili ed effimere se non si traducessero in un diletto consapevole. […] Il Crainquebille è pur sempre una piccola opera d’arte, e come tale ubbidisce a questa logica. Dapprima lo si gusta d’un fiato, cogliendone il tratto più evidente e significativo di corrosiva critica sociale. Poi lo si isola nei vari segmenti, dove ogni protagonista rappresenta un difetto della nostra sfortunata umanità. Alla fine lo si rilegge apprezzandolo nel suo insieme, e il quadro è completo. Sarà il lettore a coglierne, a sua discrezione e piacimento, le sfumature che lo interessano di più.

Nel nostro racconto il motivo dominante è, in apparenza, la tragedia di un poveruomo stritolato da una macchina infernale. E questa prima impressione viene alla fine confermata da un epilogo incerto quanto doloroso. Ma tra la tesi e la sintesi, nel mezzo, si collocano infiniti spunti che meritano una scomposizione analitica, e che spiegano il corso degli eventi che travolgono lo sfortunato carrettiere. Ne voglio cogliere due, perché sono più attuali che mai: la strumentalizzazione della legge e la sua sostanziale ipocrisia. La gran parte dei personaggi coinvolti, non solo interpretala legge a modo suo, ma cerca di servirsene a fini individuali. Madame Bayard, la ciabattina, approfitta dell’intervento del vigile per non pagare il conto della verdura. L’avvocato difensore si avvale di un’esuberante e futile eloquenza per la propria carriera politica. Il poliziotto pensa solo alla convalida dell’arresto, in barba all’evidenza di prove contrarie. E, paradosso finale, lo stesso Crainquebille cerca di farsi arrestare per sottrarsi alle miserie della strada e godere del calduccio della prigione. In questo palcoscenico grottesco e dolente, ognuno recita una parte isolata su un copione vuoto, perché ne manca il contenuto essenziale: la ricerca della verità. Poco importa che si tratti di un processetto da niente, che si conclude con una condanna assai mite. Il principio è universale: ognuno cerca di fare della legge l’uso che gli conviene. Da vent’anni, e forse più, della giustizia si cerca di fare un uso politico, aggravato da una cortina di fasulle istanze moralizzatrici. L’esempio più clamoroso è la stortura logica, etica e giuridica dell’informazione di garanzia, istituita per “informare” un cittadino e per “garantirgli” un’assistenza tecnica sin dalle prime fasi delle indagini, evitandogli di essere, di punto in bianco, ingabbiato e mandato a giudizio. Persino l’orrido neologismo di “indagato” riflette la vereconda riluttanza del legislatore ad assimilare il destinatario di questo avviso alla più antipatica figura di “imputato”. In sostanza, e a rigor di logica, chi riceve l’informazione di garanzia dovrebbe rallegrarsene, e ringraziare il legislatore della sua benevolenza soccorrevole, ben diversa dalla feroce invadenza inquisitoria delle indagini compiute in segreto. Eppure, per una perversa combinazione di ignoranza procedurale, di spavalda insolenza etica e di turpi interessi, la spedizione di questa famigerata cartolina è diventata un’anticipazione di processo e di condanna, nonché, e qui sta il peggio, motivo di estromissione politica.

La degenerazione logica, assistita da un moralismo molesto e insensato, ha persino prodotto una sindrome di autoemarginazione, simile a quella che induceva i dissidenti bolscevichi, sopraffatti dall’autoipnosi di partito, a chiedere l’anticipazione della propria condanna al boia staliniano. Sino ad arrivare all’odierna consolidata e petulante litania del ritiro di candidatura nel caso di iscrizione nel librone degli indagati. Questa maionese impazzita non solo ha avvelenato i partiti, ma ne ha minato i sistemi di selezione degradando di fatto la politica al ruolo di ausiliaria sacrificata ai capricci legali. Con la bizzarra conseguenza che, essendo l’informazione e l’iscrizione “atti dovuti”, cioè obbligatori a fronte di una denuncia, la sorte elettorale del candidato non dipende nemmeno dalla discrezionalità del magistrato ma dall’arbitrio del denunciante. Perché si è arrivati a tanto? Per la stessa ragione che ha spinto Madame Bayard a non pagare i porri a Crainquebille dopo il suo arresto: servirsi della legge per il proprio miserabile tornaconto. Con la differenza che, nel perorare il principio dell’estromissione dei colleghi, sperando di prenderne il posto, i politici hanno fatto male i conti. Nutrendo il coccodrillo affinché mangiasse il vicino, ne hanno scatenato l’appetito, e alla fine ne sono stati divorati e rischiano continuamente di esserlo. Non sarebbe un grande danno se ciò non vulnerasse il principio, per quanto deteriorato, che sono i voti e non le carte bollate a spedire gli eligendi in Parlamento, in consiglio comunale, o a casa.

  

La collana “Liberi dal Populismo” nasce contro questo tipo di atteggiamento che in Italia ha preso piede senza la benché minima opposizione culturale, anzi, venendo nobilitato facendolo passare per un grido di dolore mentre non si tratta d’altro che di un colossale rigurgito. La casa editrice Liberilibri e Il Foglio hanno scelto di portare avanti assieme questa battaglia culturale con cinque grandi testi, su argomenti che vanno dalla giustizia all’economia passando per la critica del moralismo e l’analisi del linguaggio. Un invito a pensare in maniera diversa e liberatoria rispetto all’asfittica cortina fumogena in cui è avvolto il ceto medio riflessivo del nostro Paese.

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