Una lettura per capire il delirio di onnipotenza indotto dal pentitismo
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Rileggere il libro dell'uomo che calunniò Tortora
di Guido Vitiello 30 Settembre 2017 alle 06:da www.ilfoglio.it
Memorie dalla caserma dei morti, da quel Premiato Pentitificio Pastrengo – così lo ribattezzarono Enzo Tortora e i radicali – che approvigionava con i suoi prodotti tipici (vociferazioni e calunnie) i magistrati della Procura di Napoli impegnati nel processo alla Nuova camorra organizzata. Dopo anni di ricerche a tempo perso sono riuscito a metter le mani (bucate) su un cimelio piuttosto immondo: “Gianni il bello. Autobiografia di un pentito”, stampato nell’aprile del 1986 da un certo JN editore e scritto dalla giornalista Francamaria Trapani, parente stretta dell’allora procuratore capo di Napoli. Libro famigerato, che chiunque conosca un poco il caso Tortora associa a un sinistro tableau vivant allegorico: la fastosa presentazione al Circolo della stampa di Napoli, tra cronisti giudiziari, ordinari di diritto penale, signore impellicciate, figlie da marito e soprattutto alti magistrati, tra cui il futuro presidente dell’Anm Raffaele Bertone. Moderava Pasquale Nonno, direttore del Mattino. I tg della Rai non mancarono di dare notizia dell’avvenimento letterario e mondano.
A rileggerlo oggi, è un documento sconcertante. Gianni Melluso, criminale di basso rango trapiantato dalla Sicilia a Milano, si accodò agli accusatori di Tortora intravedendo un’occasione di fama e di fortuna. Ma la Trapani, nella prefazione malignamente intitolata “Da un’idea di Marco Pannella”, assicurava che i giudici avevano sudato sette camicie per far parlare quel “siciliano bello, bullo, briccone, birbante, gaglioffo, corrotto”. Figuriamoci. Se non fosse una storia tragica, potremmo leggere il libro come opera di un millantatore di talento, capace di inventarsi perfino l’immagine comica di un “Enzino” segretamente gay, che si fa consegnare la droga arrivando in macchina con un culturista, e che fissa Gianni “in modo strano”. E’ come sfogliare una vivace cartella clinica di quel delirio di onnipotenza che è una delle sindromi più comuni indotte dal pentitismo: “Bacio tutte le ragazze che mi hanno scritto in carcere e perdonatemi se mi sono sposato”. In coda c’era una fotostoria – Melluso con Walter Chiari (altra vittima delle sue mascariature), ritratti con dedica di Amanda Lear e di Barbara d’Urso – e una grottesca rassegna di interviste a don Riboldi, al poeta Dario Bellezza, a padre Sorge (futuro padrino della Rete di Orlando), al già citato Bertone, tutti intenti a esaminare l’importante figura di “Gianni cha-cha-cha”. Che a sua volta si faceva giudice bonario dei suoi stessi impresari, i magistrati e i giornalisti che gli avevano allestito intorno quel circo. Un intero, imbarazzante capitolo dava le pagelle ai cronisti giudiziari, inclusa l’autrice del libro (“ancora di una bellezza da giovane anche se è adulta e furba come tre maschi messi assieme”).
La bella autrice di “Gianni il bello” è morta, come quasi tutti gli altri, e l’eroe eponimo è all’ergastolo. E allora per quale capriccio antiquario tornare sul luogo del delitto?
Perché in quel libro, parte di una campagna contro Pannella e Tortora, Melluso conduceva tra le righe, con allusioni oblique, anche una campagna privata, per garantirsi una buona polizza nel caso in cui il tendone del circo si fosse sgonfiato – come avvenne pochi mesi dopo, a settembre, con l’assoluzione in appello di Tortora. Tante fesserie si sono dette sulla caserma Pastrengo, scrive Melluso: che le celle erano sempre aperte, che i pentiti potevano concordare le loro calunnie, brindare a champagne, ricevere donne, addirittura fare telefonate minatorie. E lui, che qualche motivo di rancore contro lo Stato ce l’ha, potrebbe “fargli fare una brutta figura di smascherare tutto quello che era successo nella caserma, ma dato che tutto questo non c’è stato, non è giusto dire cose inesatte”. Se mi abbandonano, aggiunge, trovo l’indirizzo dei pm e mi piazzo in casa loro con mia moglie.
Enzo Tortora si chiese fino all’ultimo perché i magistrati di Napoli non avessero processato d’ufficio per calunnia il pentito Melluso. Già, chissà perché.