Schiaffo di Nordio: questo Paese vieta la legittima difesa
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L’ex giudice Carlo Nordio: "Il codice penale ha ereditato un errore storico da cambiare con la Costituzione"
Carlo Nordio - Mer, 29/03/2017 - 08:54 Giornale
Ecco un ampio stralcio della prefazione di Carlo Nordio, magistrato da poco in pensione, al libro "L’inferno di Ponte di Nanto" (di Paolo Citran, edizioni Mazzanti Libri) sul dramma del benzinaio Graziano Stacchio.
Il caso Stacchio suscita, come molti altri analoghi, controverse reazioni emotive che, in quanto tali, non sono sempre compatibili con le argomentazioni logiche di un ragionamento freddo e pacato. E allo stesso tempo fa emergere le contraddizioni e le carenze della disciplina della legittima difesa che possono, queste sì, essere oggetto di un vaglio critico.
Il punto di partenza è, ovviamente, il nostro codice penale. (...) Esso è, e non poteva non esserlo, condizionato dall'ideologia fascista, che ancora connota la sua struttura. È un codice scritto (in origine) molto bene, e sorretto da una ferrea coerenza: quella di vedere nello Stato il garante etico dell'anima nazionale, nella prospettiva filosofica hegeliana. I suoi autori, principalmente Vincenzo Manzini e Arturo Rocco, erano fascisti convinti: non nel senso peggiore, del manganello e dell'olio di ricino, ma in quello più raffinato della filosofia idealista, dove lo Stato è padre e madre, prete e chierico, legislatore moraleggiante e moralista legislatore. In questa ragnatela ideologica, il singolo scompare come cittadino, e deve accontentarsi del ruolo di suddito.
Ne derivano alcune conseguenze pratiche importanti: per esempio, che chi si difende in casa da un'aggressione ingiusta è sempre e comunque sottoposto a un'indagine. Questo naturalmente non significa che venga arrestato, processato, e condannato. Al contrario, la stragrande maggioranza dei casi si conclude, come probabilmente il caso Stacchio, con un'archiviazione. Ma nel frattempo l'aggredito ha perso soldi, tempo e tranquillità e, ovviamente, fiducia nelle istituzioni.
Perché questo avviene? Perché l'impostazione teorica della legittima difesa è fondata sui limiti imposti dall'ordinamento all'esercizio di un diritto individuale nel momento in cui questo interferisce, sino a confliggere, con le prerogative dello Stato. Attribuendosi il monopolio della garanzia dell'incolumità, lo Stato infatti vieta al cittadino lo spiegamento dell'autotutela. Nondimeno, in casi eccezionali, ne consente un contenuto esercizio, confinato tra il canone della attualità del pericolo e quello della reazione proporzionata.
Messa così, la legge non è del tutto irrazionale. Il fatto è che se una persona di notte dorme tranquillamente, magari con i bambini nella stanza accanto, e si trova un estraneo in casa, non può sapere se l'intruso vuole rubargli la biancheria o fare strage della famiglia.
E se, per comprensibile reazione, spara e ammazza il ladro, non lo fa per sostituirsi al giudice, ma per evitare un danno che potrebbe essere irreparabile e doloroso. Un danno, si noti, che lo Stato non ha saputo impedire.
E qui sorge un problema logico, prima ancora che etico o politico.
Il codice Rocco, come si è detto, è solidamente radicato sull'eticità hegeliana, e come tale venera lo Stato come entità metafisica che assorbe l'individuo e lo subordina ai suoi precetti assoluti. (...) In un simile contesto l'evoluzione della legittima difesa è inevitabilmente contrastata e contraddittoria. Essa oscilla tra due pulsioni, entrambe eccitate da stimoli emotivi, e sprovviste di solide giustificazioni teoriche: l'una, reattiva alle allarmanti contingenze criminali, invoca l'estensione dell'autotutela; l'altra, petulantemente arroccata sulle vuote formule rituali, bolla ogni novità come perniciosa apertura alla cosiddetta legge del Far West. Come subito vedremo il postulato logico della legittima difesa è esattamente l'opposto. Per comprenderne il concetto occorre chiarire che l'impostazione teorica del nostro codice si risolve nel seguente quesito: sino a che punto il singolo possa (re)agire con atti che, in se stessi, sarebbero penalmente punibili. (...) L'impostazione liberale, invece, è completamente diversa, perché mette in primo piano l'individuo, non lo Stato. Quest'ultimo non è un'entità confessionale investita di funzioni etiche. Non deve redimere nessuno né aspirare all'affermazione di un laico paradiso terreno. Esso, più modestamente, nasce da un pactum unionis dei cittadini, che gli evolvono la tutela dei propri inalienabili diritti naturali: la vita, l'incolumità, la proprietà. Questa devoluzione, tuttavia, non è incondizionata e irreversibile. Non è una cambiale in bianco. Se lo Stato è inadempiente, la persona ha il diritto di riprenderseli.
Così impostato, l'intero problema cambia prospettiva. Non enfatizza più i limiti imposti dallo Stato all'individuo, ma quelli imposti dal cittadino allo Stato. Non più il quesito iniziale: «Fin dove l'aggredito può reagire?». Ma quello simmetrico: «Fin dove lo Stato può sanzionare?». Per essere ancora più chiari: che diritto ha lo Stato di punire la reazione a un crimine che lui, Stato, non è riuscito a impedire?
Se si accede, come l'orientamento liberale auspica, a questa nuova impostazione la necessità di una riforma dell'articolo 52 appare evidente ed urgente. Essa tuttavia non è così semplice, perché la scriminante della legittima difesa è inserita in un contesto più ampio l'esercizio di un diritto, l'adempimento di un dovere ecc. che non si può mantenere inalterato, se non vogliamo scardinare la logica del sistema: la modifica delle scriminanti esige riscrittura del codice penale e, in prospettiva, una revisione costituzionale.
Queste considerazioni non sono puramente accademiche, e come tali sprovviste di pratica utilità. Al contrario, hanno una profonda incidenza concreta: la prima e più importante conseguenza processuale sarebbe quella di ristrutturare la sentenza assolutoria di chi ha agito per legittima difesa, cambiando l'attuale e ambigua formula «che il fatto non costituisce reato» con quella, ben più garantista e definitiva che «il fatto di reato non sussiste». Nel momento in cui, infatti, si riconoscesse che l'aggredito ha esercitato un diritto naturale che lo Stato non è riuscito a tutelare, il suo comportamento non sarebbe più «scusato» o «scriminato» o «non punibile», ma diventerebbe pienamente lecito (...), un comportamento che «non è reato».
Si tratterebbe, ovviamente, di una rivoluzione copernicana del nostro sistema penale. Essa tuttavia, a ben vedere, è l'unica compatibile con la filosofia liberale del contratto sociale, dove l'esercizio dei diritti naturali è devoluto allo Stato in modo non irreversibile, ma a condizione che lo Stato sia adempiente alle proprie obbligazioni. Tale soluzione, peraltro, non avrebbe solo conseguenze sulla formula conclusiva del procedimento, ma dispiegherebbe la sua efficacia sin dal primo momento dell'indagine. Perché un altro effetto pernicioso dell'attuale sistema, come il caso Stacchio autorevolmente dimostra, risiede nel travaglio giudiziario che l'indagato deve subire in termini di logoramento psicologico, danno di immagine e, non ultimo, di collasso finanziario connesso alle spese legali.
Questo perché l'attuale disciplina processuale è, nel suo teorico intento garantista, sostanzialmente punitiva nei confronti dell'aggredito. L'iscrizione nel registro degli indagati, la spedizione dell'informazione di garanzia, il diritto di tacere durante l'interrogatorio, l'obbligo di assistenza legale, la possibilità di ausilio di un consulente, sono tutti elementi volti ad assicurare a persone come Stacchio una difesa efficace: ma sono altrettanto subdoli nella loro efficacia mediatica, e onerosi nelle parcelle degli avvocati e dei consulenti. Sotto questo profilo sarebbe opportuno un accollo da parte dello Stato in caso archiviazione quantomeno delle spese sostenute. Ma questa è un'altra storia, che non riguarda solo il nostro protagonista.
Gistizia