La surreale discrezionalità della giustizia spiegata a Davigo con il caso Pelaggi
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Come far capire a un povero cristo che le stesse carte significano 5 mesi di carcere a Milano e un’archiviazione a Roma?
di Giuseppe Sottile | 21 Luglio 2016 ore 20:39 Foglio
Raccontatevelo tra voi ma, per favore, non dite nulla di tutto quello che qui leggerete al dottor Piercamillo Davigo, presidente duro e puro dell’Associazione nazionale magistrati: potrebbe restarci male, malissimo. Perché verrebbe a scoprire, chissà con quale sussulto, che nei paradisi terrestri della giustizia italiana ci sono così tante storture da fare impallidire i più indemoniati angeli del male.
Nel gennaio del 2014 la procura di Milano – e a questo punto il dottor Davigo, che di quella procura ha fatto parte, potrebbe avere una stretta al cuore – chiede e ottiene un’ordinanza di custodia cautelare per l’avvocato Luigi Pelaggi, commissario delegato del governo per la bonifica di Pioltello, 300 mila metri quadrati di discariche, terribilmente inquinate dalla Sisas, una industria chimica di base che fino al 1947 aveva scaricato lì tutti i suoi veleni. L’accusa è fulminante: Pelaggi, con l’inevitabile complicità di altri due funzionari soggiogati e corrotti, avrebbe incassato dalle ditte appaltatrici una mazzetta di 700 mila euro e le tangenti, si sa, per la procura di Milano sono un male che non prevede né clemenza né attenuanti. Da qui le manette e dopo le manette il carcere vero, non gli arresti domiciliari. A nulla valgono le richieste di Pelaggi di essere ascoltato, a nulla servono le istanze supplichevoli al Gip per una detenzione meno crudele; a nulla approdano i ricorsi al Tribunale della libertà. Il fascicolo, una montagna di trentaduemila pagine, vaga tra le aule e i corridoi del Palazzo di giustizia, ma l’avvocato Pelaggi resta sempre e comunque inchiodato dentro la sua cella. E che cosa lo inchioda? Ovviamente un’intercettazione telefonica, la numero 756, alla quale si lega un sms di tre parole: “Partito altro siluro”. Dove il siluro, secondo i pm milanesi, altro non sarebbe che la stramaledetta e ricca mazzetta.
Per un capriccio del destino – i manuali di diritto parlano di “alea judiciorum” – la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sugli atti racchiusi in quel fascicolo emette a maggio, cinque mesi dopo l’arresto, una “declatoria di incompetenza territoriale” e contestualmente decide di trasmettere le trentaduemila pagine alla procura di Roma. Ed è qui, stando al racconto di Pelaggi, che avviene il miracolo. Perché le carte del processo passano tali e quali nelle mani del pubblico ministero Paolo Ielo che, da magistrato super esperto in reati contro la pubblica amministrazione, si concentra sul faldone di 825 pagine nel quale il Nucleo di polizia tributaria di Milano aveva raccolto gli accertamenti fatti, fin dal 2011, proprio sui 700 mila euro. Ed ecco il secondo miracolo: il dottore Ielo scopre che la Polizia tributaria aveva già ricostruito, nel dettaglio, tutti i passaggi, leciti e trasparenti, di quei soldi; e che gli esperti della Guardia di Finanza avevano pure dato una spiegazione logica della intercettazione telefonica numero 756, quella che gli inquirenti milanesi avevano esibito, nell’ordinanza di carcerazione preventiva, come la pistola fumante del delitto.
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Tutto bene quel che finisce bene, si dirà. E invece no. La prova che non c’era stata corruzione era dentro il fascicolo. Non se n’erano accorti quattro pubblici ministeri, due giudici per le indagini preliminari, due collegi del Tribunale della libertà. Che cosa può essere successo? Una risposta la fornirà quasi certamente la procura generale della Cassazione che dopo l’archiviazione chiesta e ottenuta da Paolo Ielo avrebbe richiamato gli atti, “per il di più a praticarsi”. Ma, al di là delle deduzioni e delle controdeduzioni che in quella sede non mancheranno, è forse arrivato il momento di porre al dottor Davigo, presidente dell’Anm, una domanda che a lui potrà anche sembrare blasfema, ma che per forza di cose non può essere lasciata ancora lì, senza risposta.
Per carità, chi mangia fa molliche e un errore umano è sempre possibile. Ma qui siamo di fronte a un errore collettivo. Su dieci toghe che hanno variamente danzato attorno a quel fascicolo come mai nessuno aveva adeguatamente valutato il faldone di 825 pagine nel quale erano raccolte le prove a discolpa del detenuto? Certo, il dottor Davigo potrà sostenere che ogni testa è un tribunale e che non ci sarebbe giustizia senza il libero convincimento del giudice. Ma come spiegare a un povero cristo che le stesse identiche carte significano cinque mesi di carcere a Milano e una richiesta di archiviazione a Roma?
Se poi qualcuno volesse scandagliare gli abissi chiari delle sentenze che giorno dopo giorno agitano l’immenso mare della giustizia italiana si accorgerebbe che la doppia lettura delle stesse identiche carte è un fenomeno piuttosto diffuso. A Palermo, negli anni torbidi in cui i papaveri della procura – almeno quelli più politicizzati – non avevano occhi se non per la fantomatica Trattativa tra alcuni funzionari dello Stato e i boss di Cosa nostra, un pm particolarmente sensibile verso i reati finanziari decide di inquisire per usura i vertici di Banca Nuova: il presidente Marino Breganze, il direttore generale Francesco Maiolini e il responsabile dell’area commerciale Rodolfo Pezzotti. Il danno che, secondo l’accusa, la Banca avrebbe provocato a un cliente – tra l’altro già fallito e dunque destinato a non restituire mai più nemmeno una lira – era di 2.711 euro, una cifra misera e miserevole, specie se si pensa che la legge consente ai giudici di chiudere un occhio anche davanti a una evasione fiscale di 300 mila euro. Ma tant’è. Sull’usura della Banca Nuova l’intrepida procura palermitana non concede spazio né alle tolleranze né agli accomodamenti. L’inchiesta va avanti e il Gip non sente ragioni: bisognerà affrontare il giudizio. A questo punto però le strade si dividono: il direttore Maiolini sceglie il rito abbreviato mentre gli altri due imputati vanno al processo ordinario. Con risultati diametralmente opposti: Maiolini viene condannato a otto mesi ed è in attesa dell’appello; mentre Breganze e Pezzotti vengono assolti con formula piena: “Il fatto non costituisce reato”.
Come è stato possibile? Alea judiciorum, rispondevano i giureconsulti romani quando il discorso si faceva particolarmente duro e impenetrabile. E così dicendo mettevano avanti non solo l’imprevedibilità della sorte ma anche i rischi e l’azzardo che una sentenza spesso comportava.
Ma di alea in alea arriviamo ai dadi dell’anziano giudice Bridoye, un personaggio fantastico inventato a metà del Cinquecento da François Rabelais per denudare e scarnificare, con la sola forza dell’ironia, vizi e magheggi della giustizia.
Dopo avere descritto nel Pantagruel le esilaranti peripezie di legulei e litiganti con il conseguente stupore di “tous le Presidens, Conseilliers et Docteurs”, un Rabelais sempre più divertito e appassionato tira fuori dal cilindro il vecchio e scanzonato Bridoye, giudice del piccolo tribunale di Fonsbeton. Il quale, tra il trentanovesimo e quarantatreesimo capitolo del Tiers Livre, viene sottoposto a procedimento disciplinare presso l’immaginaria Corte di Myrerlingues per avere deciso una causa gettando i dadi. Come se non bastasse, il giudice ammette fin dalle prime battute di avere definito con lo stesso metodo tutte le cause affidategli nel corso della sua lunga e onorata carriera. E, dopo avere citato Giulio Cesare e il famosissimo detto che segna il passaggio del Rubicone, spiega di avere fatto ricorso ai dadi in ossequio alla traduzione letterale di alea judiciorum. Chiuso nel suo cabinet, Bridoye sistemava sul bordo destro del tavolo il sacco con le carte che avrebbero dovuto dimostrare le ragioni della difesa e, sul bordo sinistro, il sacco con le carte dell’accusa, così da riprodurre plasticamente il dibattito fra le parti. E poi – alea iacta est – tirava a sorte. Usava dadi grandi quando la causa era semplice; e dadi piccoli quando la vertenza era particolarmente difficile. “Comme vous aultres messieurs”, sottolinea il giudice Bridoye, rivolgendosi con tono angelico e beffardo ai parrucconi della Corte di Myrelingues, sempre più attoniti e smarriti.
Nel tentativo di superare l’impasse, il presidente Trinquamelle a un certo punto gli chiede: da che cosa desumete se una causa è semplice o complessa? Naturalmente, risponde Bridoye, “comme vous aultres messieurs”, dal numero e dalle dimensioni dei sacchi. Ma allora perché, insiste il presidente della Corte, non gettate i dadi nel momento stesso in cui i litiganti compaiono, evitando le lungaggini della procedura? Di fronte a questa domanda, per lui quasi offensiva, l’anziano giudice alza la testa, indignato e spavaldo. E risponde: in primo luogo per rispetto della forma, dato che “forma mutata mutatur substantia”; in secondo luogo perché la gestione e lo spostamento dei sacchi comportano un salutare esercizio fisico; in terzo luogo perché il tempo fa maturare tutte le cose ed è padre della Verità.
“Comme vous aultres messieurs”. Il ritornello torna una ventina di volte. Bridoye lo scandisce con orgoglio, rivendicando la serietà e la dignità di onesto magistrato di provincia. Ma soprattutto ricordando agli ingessati interlocutori che le sue sentenze, se appellate, sono state sempre “ratifiées, approuvées et confirmées” proprio “da questa Corte di Myrelingues”; e che il primo e unico errore di cui è stato incolpato è dipeso soltanto dall’indebolimento senile della vista che gli ha impedito di leggere correttamente il punteggio dei dadi piccoli.
Diciamocelo sinceramente: non sembra di leggere il verbale che il Consiglio superiore della magistratura finirebbe per stilare nel caso in cui l’avvocato Pelaggi avesse tempo e voglia di denunciare quei magistrati che lo hanno fottuto per cinque mesi in galera semplicemente soppesando, chiuse come in un sacco, le trentaduemila pagine del fascicolo?
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