Inno alla libertà di contratto
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Lavorare meno non fa lavorare tutti. Crolla un mito di sinistra. Sul tasso di produttività del lavoro
non c’è gara: la Germania ci surclassa. Sul monte annuo di ore lavorate per addetto, invece, siamo messi meglio. Leggendo i dati Ocse viene da stropicciarsi gli occhi: siamo meno stacanovisti degli americani, ma più sgobboni dei tedeschi. Vantiamo poi un pacchetto di ferie retribuite invidiabile, che non ha eguali tra le nazioni industrializzate. Ne era certo a conoscenza il sottosegretario al ministero dell’Economia, Gianfranco Polillo, quando ha proposto di ridurre di una settimana le vacanze degli italiani per aumentare il pil. L’idea non è di quelle che scaldano i cuori e presta il fianco a obiezioni serie, ma non è né stravagante né campata in aria. Prendiamo gli Stati Uniti, dove non è garantito un periodo obbligatorio di ferie pagate, ma che è il paese occidentale in cui si passa più tempo in fabbrica o in ufficio. Basta comparare i tassi di crescita statunitensi con quelli europei, per capire che sull’altra sponda dell’Atlantico si produce di più anche perché si lavora di più: non è solo una questione di produttività, ma di orari. Veniamo all’Europa. Dopo i traguardi novecenteschi delle 48 ore settimanali degli anni Venti, delle 40 negli anni Sessanta e delle 36 (o 35) negli anni Novanta, si interrompe quello che sembrava un cammino inarrestabile. Lo stop è brusco: nel 2004 le maestranze di Siemens e Opel accettano di prolungare l’orario di lavoro a parità di salario, in seguito alla minacciata delocalizzazione di alcuni impianti. Le 35 ore vengono quindi messe in discussione nella Germania del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, dove erano state contrattate dai sindacati, e poi affossate nella Francia di Nicolas Sarkozy, dove erano state imposte per legge da Martine Aubry. Sull’era delle diminuzioni generalizzate d’orario è calato così il sipario. Un’inversione di marcia su cui ha certo pesato l’allungamento della speranza di vita, che si è venuto incrociando con l’assottigliamento dell’orario di lavoro.
Non è infatti facile reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che si abbassa e di una durata della vita che si alza. Qui c’è un motivo forte, semmai, che dà conto del differimento dell’età pensionabile. Ma i fautori del “lavorare meno lavorare tutti” non per questo hanno ammainato le loro bandiere. Da Beppe Grillo a Serge Latouche, passando per l’Università Bocconi, se ne possono trovare nella sinistra più radicale come nei templi del liberismo. Gli argomenti sono diversi, ma la tesi è la stessa: se la disoccupazione di massa è attribuibile in buona misura alla rivoluzione tecnologica, non si può scartare a priori la riduzione dell’orario di lavoro, e cioè una via redistributiva. Solo che non sussiste alcuna evidenza empirica in grado di attestare in maniera inconfutabile che la tecnologia distrugge più posti di quanti ne crea. Stati Uniti e Giappone dimostrano il contrario: hanno sfoggiato i maggiori successi nella creazione di posti e sono all’avanguardia nell’informatica.
All’origine, la rivendicazione dell’orario ridotto intendeva proteggere i lavoratori dal prolungamento e dall’intensificazione della fatica. Dopo cambia di segno: si comincia a esigere un minor tempo di lavoro anche per aumentare il tempo libero. In un volume che oggi varrebbe la pena rileggere (“Era il secolo del lavoro”), Aris Accornero ricostruisce accuratamente le tappe fondamentali di questa grande mutazione. Tra quelle a noi più vicine, spicca l’accordo con il quale nel 1993 Volkswagen e sindacati decidono di ridurre a 24 ore l’orario settimanale – e un po’ di meno la paga – per salvaguardare i livelli d’occupazione. Alla luce di un’esperienza ventennale, adesso sappiamo che “il modello Volkswagen” funziona abbastanza bene se si tratta di salvare i posti esistenti, ma funziona meno bene se si tratta di crearne di nuovi. Un risultato logico: sia perché è arduo abbattere ulteriormente gli orari quando sono già vicini alle 35-36 ore, sia perché le imprese hanno scelto sempre più ristrutturazioni che rendano flessibili orari e calendari. Pensiamo a ciò che è accaduto in Italia nel quindicennio passato: mentre Fausto Bertinotti strappava a Romano Prodi la promessa delle 35 ore per tutti, molte aziende continuavano a scambiare tempo contro soldi, e più avanti si sono difese dalla recessione con orari di fatto più lunghi di quelli contrattuali. Nel mercato del lavoro domestico la tendenza resta quella dell’allungamento della giornata lavorativa sociale, costituita dalla somma dei regimi d’orario vigenti in tutti i settori manifatturieri e dei servizi. Questa realtà rappresenta il crocevia di quel patto per la produttività invocato da Monti. Il suo obiettivo non può che essere quello di “lavorare di più per guadagnare di più”, anche attraverso una flessibilità degli orari in grado sia di salvaguardare l’impiego sia di aumentare il salario. La sua regolazione non può che avvenire in azienda, perché è nell’azienda che si realizzano quelle innovazioni di processo e di prodotto da cui dipende, in ultima analisi, la produttività del lavoro. Il contratto dei chimici siglato nei giorni scorsi si mostra consapevole di questa elementare verità. La Cgil, che lo ha sconfessato, ancora no.
di Michele Magno, 28.9