Pdl, Silvio sfida Angelino
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Alfano vuole il restyling del partito. Il Cav no. Visto da fuori il Popolo della libertà è
un monolite, ma all’interno non potrebbe essere più diviso. Le divergenze dei berlusconiani non riguardano solo le scelte politiche ma anche quelle interne al partito.
Ormai ci sono infatti due filosofie che si oppongono: da una parte quella del segretario Angelino Alfano e dall’altra quella del padre nobile Silvio Berlusconi.
RILANCIO O AFFONDO. Mentre l’ex Guardasigilli chiede il ricambio generazionale e le primarie per rilanciare il Pdl, il Cavaliere considera il partito unico di centrodestra una parentesi ormai chiusa. Per questo vorrebbe lanciare una creatura nuova che prenda spunto dalle liste civiche.
In questi giorni a riguardo si è detto e scritto di tutto: dalle istanze animaliste da affidare a Michela Vittoria Brambilla alla prospettiva della candidatura di un fuoriclasse come Vittorio Feltri. Da una corrente ultrà capitanata da Daniela Santanchè, passando per una lista «under» pensata per intercettare il voto dei giovani, fino ad arrivare a una fazione composta da calciatori, in puro stile Milan.
L'IPOTESI DI RITORNO DEL CAV. Anche l’ipotesi del ritorno in campo di Berlusconi, auspicata a dire il vero più da qualche peone che dal diretto interessato, non convince tutti.
E di nuovo si torna alla divisione di fondo: c’è chi rivorrebbe il Cavaliere in prima fila, come forza trainante e chi è sicuro che la sua esposizione diretta ne certificherebbe la morte politica.
LE CORRENTI INTERNE. Tanto sconquasso fa ricordare l'atmosfera che anticipò il Predellino del 2008. Oggi come allora, le anime degli ex An sono tornate a contrapporsi ai liberali e socialisti che facevano parte di Forza Italia.
I nodi da sciogliere sono tanti: il calo dei consensi, la fusione a freddo che non si è mai realizzata davvero e il sostegno al governo Monti.
ALFANO, LEADER MANCATO. Dal canto suo, un anno dopo la sua incoronazione, Alfano avrebbe i titoli per garantire la continuità del partito. Il condizionale è d'obbligo, visto che non è mai stato plenipotenziario e che non ha mai potuto agire in autonomia.
Il delfino berlusconiano vorrebbe portare avanti il suo compito, ma il Cavaliere, suo interlocutore diretto, chiede l’opposto, ossia una rivoluzione sostanziale.
Il caso Lusi e l’astensione del partito
Tanto per dare l'idea del terremoto in corso, basta prendere in esame il voto al Senato sull’arresto dell’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi. L'ennesimo capitolo controverso all’interno del Pdl.
LA FRONDA DEL VOTO SEGRETO. La linea ufficiale del partito era stata presa la sera del 19 giugno: voto palese e libertà di coscienza.
Eppure qualche berlusconiano la pensava diversamente. Alcuni parlamentari come Domenico Nania, Altero Matteoli e Francesco Nitto Palma avevano sollevato l’incoerenza tra libertà di coscienza e voto pubblico. Altri, invece, avevano esplicitamente firmato per chiedere il voto segreto.
Il vicecapogruppo del Pdl, Gaetano Quagliariello, è addirittura arrivato a minacciare le dimissioni contro la fronda, salvo poi smentire il tutto.
DA MALUMORI A CASO POLITICO. I maldipancia interni si sono trasformati in un caso politico quando il partito ha deciso di non partecipare al voto. Una scelta presa, ufficialmente, «per evitare strumentalizzazioni». Ma il rischio di una spaccatura palese è stato davvero alto.
Non convince la riforma del lavoro
Ma non è finita qui. Le controversie interne riguardano anche la riforma del lavoro portata avanti dal ministro Elsa Fornero.
CROSETTO ALZA LA VOCE. Un pezzo da novanta del Pdl più liberal come Guido Crosetto ha detto che è «surreale» sentirsi obbligati a votare un provvedimento giudicato «sbagliato, negativo, dannoso e miope». Quindi, ha ribadito, non voterà la fiducia. Aggiungendo: «Porrò con forza un tema al gruppo e al partito: il governo Monti 1 è, a mio avviso, finito».
La pensa allo stesso modo anche l'ex ministro Renato Brunetta il quale ha dichiarato senza timore che non voterà quello che ritiene essere il prodotto di un «governo di apprendisti stregoni».
IL PACIERE CICCHITTO. È toccato al capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, a far da paciere nei limiti del possibile. Infatti il presidente dei deputati berlusconiani ha spiegato che il partito sta facendo «il possibile» per «licenziare la riforma entro il 28 giugno», come espressamente richiesto dal premier Monti.
CAZZOLA IL MEDIATORE. Vorrebbe votare il prima possibile la riforma del lavoro, per poi concordare con il governo un pacchetto di modifiche da inserire nel decreto Sviluppo, anche il pidiellino Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro della Camera e relatore insieme con il piddino Cesare Damiano della riforma Fornero.
Entrambi sono impegnati in un difficile compito di mediazione, reso ancora più faticoso dal clima del partito di centrodestra.
L’anticorruzione ha spaccato in due i deputati
Un'altra rottura ha riguardato il ddl anticorruzione, approvato il 15 giugno alla Camera da una maggioranza risicatissima.
In quella occasione, infatti, sono stati 38 gli esponenti del Pdl che si sono astenuti, tra cui Gaetano Pecorella, l'ex sottosegretario Alfredo Mantovano, Guido Crosetto, Aldo Brancher e Renato Brunetta. Altri 61 non hanno partecipato al voto, ben 11 erano in missione e in due hanno detto «no».
LA MINACCIA DEL VOTO CONTRARIO. Questo significa che 112 esponenti berlusconiani non hanno votato il testo che aumenta le pene per i reati contro la pubblica amministrazione e rende incandidabili i condannati. In pratica più della metà dei deputati del Pdl ha espresso in un modo o nell’altro la sua contrarietà.
Adesso i berlusconiani hanno chiesto che il governo non ponga la fiducia al Senato. Se così non fosse hanno minacciato il voto contrario. Ma di chi? Della metà degli eletti o di tutto il gruppo?
Questo è il dilemma dell’ex partito unico in cui, ormai, vincono i sottoinsiemi.
Marianna Venturini - Lettera 43 - 21.6.2012