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Renzi e la Libia. Farsi guidare dall’interesse nazionale e non dallo spettro della legalità internazionale
di Giuliano Ferrara | 18 Febbraio 2015 ore 06:27 Foglio
Non che il Renzi abbia bisogno di consigli, perché nella manovra l’è un fenomeno, però ci sono cose che reclamano un tratto meno da Leopolda, meno da Sindaco e più da uomo pubblico, se non proprio di stato (qui si detestano le retoriche inutili). Per lui è il momento della competenza, dell’ascolto, della raccolta delle idee e ideuzze anche di persone diverse e distanti dalla sua bella età, dalla sua cupidigia di cambiamento eccetera. Non che debba cambiare stile, e Dio ne guardi separarsi dall’istinto, anche quello del boy scout, ma una parentesi di gravitas, di attenzione alla storia e alla teoria, di consultazioni tra esperti e vecchi del mestiere, una chiacchierata con Sergio Romano, una con una spia decente delle nostre, due parole con i capi dell’Eni, una scorsa anche alle idee di Antonio Martino, ecco, poi si torna felicemente a Boeri e Baricco. Questo, con tutto il rispetto, non è l’articolo 18, ché a far fesso il Landini bastano quelli di Pomigliano, e nemmeno #labuonascuola: questo è lo Stato islamico, che non sarà un Drago cinese ma nemmeno il gatto del Cheshire di Alice in Wonderland, nemmeno il Gatto Mammone.
Intanto, in senso giornalistico, cioè toccando la parte più superficiale della realtà, va detto che bisognerebbe ridimensionare questa ossessione, derivante certo da giusta cautela ma pericolosa se diventi una fissazione, della “legalità internazionale”. L’Onu ti copre, dà una patina di legittimità amata dal popolo arcobaleno, va sollecitata con vigore ad agire, può essere la tutela agognata contro le avventure solitarie, ma alla fine dei conti, ecco, tre tirannie sono state abbattute, uno è il mullah Omar dei talebani, uno è Saddam, ma prima di loro Milosevic in vena di dominio nel Kosovo, e in questi casi di successo l’Onu non c’entrava per nulla. Non sempre si può dipendere, nella tutela degli interessi di sicurezza, e degli interessi nazionali in occidente e nel Mediterraneo, dal wording di una risoluzione, cioè dalla calibratura di equilibri diplomatici che spesso si cercano e non si trovano in una disperata lotta contro il tempo e contro i veti.
La legalità internazionale la si vide all’opera nella prima guerra del Golfo, quando Bush padre si fermò prima del tempo con brutte conseguenze. Oppure, a parte questo interventismo a metà, spuntò come limite da non oltrepassare, tra una risoluzione mancata e un digiuno inter-religioso, nel più fatale caso di inazione: la Siria, da cui tutto ha principio e che vale da spiegazione del caos odierno. Roger Cohen in una column intelligente del New York Times dice giustamente che “anche l’inazione è una politica: il non-intervento ha prodotto la Siria di oggi”. In certi casi i buoni uffici dell’Onu hanno dato una mano a registrare risultati sul campo, e ad acquietare le cose dopo che l’uso della forza militare le aveva fatte muovere in una direzione o nell’altra, ma anche nel semplice settore del peace keeping, basti pensare a Srebrenica o a certe avventure africane dei Caschi blu, qualcosa è andato storto, e parecchio.
Poi c’è l’interesse nazionale, spettrale antagonista della legalità internazionale. Se nutrito di enfasi ideologica e giocato contro certe regole derivate dalla fine della Guerra fredda, come nel caso di Vladimir Putin in Crimea e in Ucraina, è anche pericoloso. Muove da un presunto stato di necessità, si nutre di miti etnici o linguistici, è sempre incline a ragionamenti rischiosi sullo spazio vitale di uno stato. In questo periodo funziona, non c’è che dire. Tanto più funziona in quanto si confronta con la visione legalistica di una diplomazia intergovernativa europea, non proprio un carro armato dal punto di vista dell’efficienza e della fibra. Ma lo spuntare di un embrione di stato islamico alle porte di casa, per gli italiani, popolo e classe dirigente, non è una variazione controllabile del dopo Yalta. E’ un caso di interesse e di sicurezza nazionale. E’ una prima linea del jihad, è l’ultimo stadio di un processo che promette di avere per sé il futuro del nostro mare e del mondo. Duecentomila profughi mandati allo sbaraglio verso il caos alle nostre frontiere possono essere una cifra esagerata. Ma un discorso del governo sull’interesse e sulla sicurezza nazionale, e un piano d’azione libero da troppe remore, è opportuno, doveroso. #lavoltachenonsischerza