Perché l’Italia è (e forse resterà) un paese inadatto
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a guidare una guerra. Indagine
di Maurizio Crippa | 17 Febbraio 2015 ore 10:02
Milano. Finora di dirompenti blitz notturni s’è visto solo quello di venerdì notte, quando alla Camera, praticamente in solitaria, la maggioranza ha modificato con un emendamento l’articolo 78 della Costituzione, quello che regola le modalità della dichiarazione dello “stato di guerra”. In futuro, basterà la maggioranza qualificata dei deputati per approvarlo. Gli unici a essersene accorti sono l’estrema sinistra e i grillini, che gridano all’aberrazione, tanto più nella prospettiva di una riforma elettorale che conferirà maggioranze blindate a un partito solo. Ma questo è il futuro. Per stare all’oggi, il tanto temuto commander in chief di domani, Matteo Renzi, si è limitato a dire, in modo molto tradizionale per un presidente del Consiglio italiano, che “questo non è il tempo dell’intervento miliare” e che bisogna aspettare l’Onu. L’Italia, nonostante le parole di Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti (Esteri e Difesa), che hanno di fatto predisposto il nostro paese a un salto di responsabilità internazionale, continuerà a barcamenarsi nel suo costituzionale rifiuto della guerra. Costituzionale nel senso dell’articolo 11 della Carta, ma anche nel senso di inscritto nel Dna nazionale. Rimarremo per sempre una nazione, per così dire, “unfit to lead a war”?
Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica, spiega che ciò che sta scritto nella Costituzione è il problema relativamente minore: “E’ una cultura nazionale diffusa ciò che rende difficile l’assunzione di responsabiltà. Ciò che sfugge è la dimensione politica. Soprattutto davanti alla guerra in Libia che, in ipotesi, sarebbe una guerra vera per eliminare dei nemici combattenti, e non un’azione di peacekeeping”. Insomma siamo in presenza del solito tabù, “la rimozione del conflitto, diffusa in un paese permeato di cultura cattolica e di sinistra”. E questo è un paradosso, “perché il nostro strumento militare è efficiente, è divenuto negli anni credibile sul piano internazionale. Ma è lo strumento politico decisionale a essere debole. Vedi le 48 ore di ritardo con cui Renzi ha, di fatto, smorzato le posizioni dei suoi ministri”. In verità va tenuta in conto anche una diffusa sfiducia nello strumento militare in quanto tale, diffusa in settori che pure pesano nei nostri rapporti internazionali. E’ ad esempio il pensiero di Mario Giro, sottosegretario agli Esteri e figura di spicco della Comunità di Sant’Egidio, organizzazione che ha elaborato una vera e propria cultura della risoluzione dei conflitti basata sul dialogo e la mediazione. Al Foglio spiega: “Lo strumento guerra è obsoleto in sé, e non lo si dice soltanto in Italia, se ne discute ovunque. Questo vale tanto più in una situazione in cui si ipotizza un intervento in una guerra civile, dove non esiste interlocutore”. Eppure, questa è (sarebbe) una guerra quanto mai “nostra”, forse per la prima volta l’opinione pubblica avverte una minacca reale. “E’ responsabilità nostra, non guerra nostra”, ribatte Giro. Giudizio non troppo distante, pur per altre vie, da quello di Lucio Caracciolo, docente di Geopolitica alla Luiss e fondatore di Limes: “Faccio una premessa: un’operazione militare in Libia sarebbe un suicidio, un disastro, e un grande spot per il califfo. Detto questo, concordo: sarebbe ora che l’Italia si togliesse questa foglia di fico delle guerre fatte senza dirlo (e ne abbiamo fatte). Il problema, però, è avere un obiettivo politico”. Ancora Giro: “La mia esperienza è che nessun intervento militare, nemmeno di peace enforcement, fugurarsi in un conflitto civile, funziona senza aver stabilito prima relazioni tra le parti”.
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Prosegue Mario Giro: “Il lavoro da sostenere, per il nostro paese, è quello di Bernardino León, il commissario Onu che conduce le trattative tra forze politiche e personalità indipendenti della Libia e che nei prossimi giorni le incontrerà di nuovo a Ginevra. La situazione che abbiamo davanti, e che dobbiamo ben tenere presente, è quella della Somalia: una guerra civile in un paese fuori controllo. E dobbiamo ricordarci di come è andata, cioè molto male, e perché: esattamente per la mancanza della minima interlocuzione politica”. La Somalia del 1996, appunto. Dal disastro militare di Mogadiscio, almeno, Ridley Scott trasse il monito tragico di “Black Hawk Down”. Noi italiani dal pasticcio politico militare di Checkpoint Pasta abbiamo tratto solo una lunga scia di misteri, pasticci, sensi di colpa e paure che si materializzano a ogni nuovo intervento armato.
“Il nostro problema politico è la rimozione dell’idea del conflitto”, argomenta dunque Parsi. “Non si tratta nemmeno di ‘cultura pacifista’, quanto piuttosto di un tabù diffuso, che pesa in maniera maggiore che per altri paesi. Dico che non è pacifismo, nel senso che il pacifismo integrale storicamente appartiene in misura maggiore alle chiese protestanti e ai loro paesi di riferimento, che non alla chiesa cattolica. Anche se avere il Papa in casa è di certo un aspetto che pesa: potrà davvero Renzi avere la forza di sfidare la cultura della sinistra democristiana, di cui è circondato?”. Il pacifismo in quanto tale “appartiene solo a certi settori cattolici organizzati, o alla sinistra che oggi è quella dei movimenti, antiamericana, antiglobalista. A livello generale invece pesa un generico orrore che annichilisce davanti alla guerra. Un tabù nazionale, appunto”. Invece, per Mario Giro non si tratta di tabù, ma di strumento: “Il rischio è di non essere lucidi. Le situazioni di conflitto richiedono lucidità politica. Ormai questo è un fatto acquisito nella gestione di tutte le crisi. Pensare al solo strumento militare non basta”.
Dopo anni e polemiche e investimenti – nonché in primis del sacrificio di molti soldati – l’Italia rischia dunque di essere, di rimanere, un paese “unfit”, non adatto a reggere l’urto di una guerra, anche se è guerra di difesa? Per Parsi, pur senza anticipare il giudizio, il rischio c’è, ed è un rischio di carattere decisionale. Giro preferisce non esporsi su questo terreno, non perché non abbia idee a riguardo, ma perché non è il terreno a suo avviso adeguato: “Perché ad esempio il lavoro in Libano funziona? Perché lì ci sono accordi, sempre da rinegoziare, con le parti: c’è prima uno strumento politico”. Caracciolo si espone di più: non essere “unfit” in un conflitto, dice, non è questione di etica, è che serve un obiettivo politico: “In Libia gli egiziani ce l’hanno, vogliono la Cirenaica, i francesi hanno il loro. Ma noi? Ci culliamo nell’idea sbagliatissima che una coalizione eventuale sarebbe guidata dall’Italia”. E non siamo (ancora) fit abbastanza, per questo.