Toni Capuozzo: «Oggi la guerra è caos»
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Intervista allo storico reporter di guerra, che parla delle nuove guerre, degli embedded e dei marò
Dario Ronzoni, LINKIESTA 15.2.2015
Qualsiasi cosa racconti, quello del giornalista sarà sempre «il suo punto di vista», una «tessera in un mosaico più grande». Questo vale in qualsiasi parte del mondo si trovi, sia uno scenario di guerra o di pace, insieme ai militari o mimetizzato nella popolazione locale. Lo dice Toni Capuozzo, inviato e cronista di guerra, e non è una visione limitante. Al contrario, è una rivendicazione di libertà. Essere «in mezzo ai fatti» dona la possibilità di vederli e raccontarli, pur sapendo che lo sguardo è limitato e che esistono – sempre – altre storie che non si vedono. Ma il contatto con la realtà permette di non lasciarsi condizionare da quello che dicono gli altri o – peggio – da quello che vogliono. È un «punto di vista», di conseguenza, ma almeno è «il suo». Capuozzo, nella sua carriera, ha conosciuto l’America latina dei guerriglieri salvadoregni, le guerre della ex Jugoslavia, la Somalia, il Medioriente, l’Afghanistan. Ha lavorato per testate come Panorama, Epoca, poi per programmi come Mixer, con Minoli, e infine è passato a Mediaset, dove è stato vicedirettore del Tg5 fino al 2013, e dove conduce Terra! Il suo sguardo sarà limitato, ma le storie le ha sempre trovate.
Come lavora un giornalista di guerra?
Io non ho mai amato questa definizione. Non mi sono mai definito “giornalista di guerra”, come se fosse una categoria definita, a sé. Io sono un inviato, un cronista. E lo faccio da zone di conflitto, questo sì. C’è una cosa però che è irrinunciabile, per il cosiddetto giornalista di guerra, ed è la presenza sul posto. Molto semplice ma necessaria. Esistono altre forme di giornalismo che riescono a funzionare anche a distanza, con il telefono o con le agenzie. Questo con il giornalismo di guerra non può succedere. È necessario essere lì, alla fonte dei fatti.
Ma è meglio andarci accompagnati dai militari o no?
Dipende. Ci sono zone in cui non si può andare se non con i militari, e allora la scelta è obbligata. Ad esempio in Afghanistan, durante la guerra, sono andato accompagnato con i militari. Altre situazione in cui la presenza dei militari è inutile, a volte anche dannosa. Se mi interessa capire e vedere la vita di un villaggio, ad esempio, è meglio andare con una guida del posto, ma senza soldati. Oppure ancora, posso scegliere di raccontare cosa fanno i soldati in quelle zone, e allora sarà ovvio che dovrò stare con loro.
Ho passato dieci giorni in marcia con i guerriglieri, ma questo non mi ha impedito di dire ciò che pensavo
Ma non è una condizione che influisce su ciò che si racconta?
No, a parte le scelte che ho spiegato prima. Il giornalista che vuole vedere la locanda di Kabul, o capire come vengono prese le decisioni in quelle zone dai locali, vedere con mano il ruolo che – ad esempio è quello che è capitato a me – hanno gli anziani (molto rispettati, venerati) in quei Paesi, non va con i militari, punto. Questo però non vuol dire che se si è embedded si distorce quello che si racconta. Il problema sta in quello che si vuol fare. È un fatto di onestà. Il giornalista racconta il suo punto di vista, che sarà sempre una tessera in un mosaico più vasto, ma che rimane indipendente da quello che vogliono farti pensare. Io ho passato dieci giorni in marcia con i guerriglieri salvadoregni, ma questo non mi ha impedito di scrivere quello che pensavo. Il problema, in realtà, è in Italia.
In Italia?
La questione embedded contro non-embedded è un grande dibattito che va avanti da molto tempo, e ognuno ha le sue ragioni. La mia opinione è che sia una questione eccessiva. Tanto più che in Italia esiste una buona parte di giornalismo embedded: ma nella politica, non nel conflitto.
I giornalisti embedded si trovano più nella politica che nei conflitti
Essere embedded è una questione di sicurezza, anche.
Non è detto neanche questo. Il giornalismo di guerra ha sempre i suoi rischi, e le garanzie non ci sono mai. Succedono le disgrazie, è inevitabile. Io non sono mai critico nei confronti dei colleghi che vengono rapiti, o che si trovano in situazoni spiacevoli. La prudenza non è mai abbastanza, in quelle zone, e gli incidenti possono avvenire in ogni momento.
Il problema è la garanzia, appunto.
Certo. Se io avessi la garanzia, vera, forte, di poter tornare, andrei per una settimana negli accampamenti dell’Isis. Anche accompagnato dal diavolo. Non è necessario un reparto americano. Serve qualcuno che mi permetta di fare il mio lavoro. Adesso poi è anche più difficile.
Perché?
Perché la guerra è cambiata. Si fa in modo diverso.
In che senso?
Non è più come nel Vietnam, dovec’erano giornalisti con elmetto, uniforme, alcuni anche il grado. I fronti, all’epoca, erano due ed erano chiari. Adesso è tutto più disordinato, i blocchi non sono contrapposti, la guerra è diventata confusa, complessa. Esistono varie forme di interessi che si sovrappongono, ed è difficile capire cosa è prudente fare, dove è meglio andare, con chi accompagarsi.
Come se lo spiega?
È la conseguenza della trasformazione epocale avvenuta alla fine del ’900. Il crollo della politica dei blocchi contrapposti. Prima c’erano due superpotenze che, bene o male, tenevano insieme tutto, erano legati tra di loro. E questo era un elemento di razionalità che emergeva, nei conflitti. Poi, al momento della caduta del comunismo, si è visto che proprio da quei territori sono partite delle variabili impazzite, come nella ex Jugoslavia. Le guerre balcaniche sono segno e conseguenza di questo fatto. Ma anche altre cose sono cambiate.
Cosa?
Gli eserciti: non ci sono più gli eserciti tradizionali, ma bande di ex tifosi, di ex contadini. O anche nel caso dell’Isis: non sono un esercito regolare. Prima i terroristi erano una presenza carbonara, misteriosa. Adesso si sono impadroniti di un territorio, che amministrano, come uno Stato. Anche le loro strategie sono cambiate, dalla guerriglia al controllo del territorio. E poi, sono cambiate anche gli atteggiamenti delle guerre: adesso, e Obama lo dimostra, l’importante è non morire. C’è una grande riluttanza a combattere. Sembra che il fantasma dell’Iraq e dell’Afghanistan, guerre senza uscita, abbiano lasciato il loro segno. Prima era diverso, prima di cercava la vittoria, non il minor danno. È perché la guerra è lo specchio, deformato, della società.
Ne è una componente.
Sì, ma anche un parallelo: pensi come l’uso dei telefonini ha modificato la vita dei civili. Immagini allora anche per i militari cosa avrà voluto dire l’inserimento di una nuova tecnologia. Adesso si passa per altre strade. Quelle informatiche, ad esempio. Dell’arte della guerra antica sono rimasti solo alcuni simboli, e non tutti. Uno di questi è la bandiera piantata. Da Berlino a Kobane è rimasto un segnale forte, un messaggio potente.
Lei conosce anche uno dei due marò, Massimiliano Latorre, detenuti in India.
Sì: io lo conosco e l’ho sempre trovato una persona correttissima e un grande professionista. Io sono contrario a chi non li difende. Per me sono innocenti. Ma anche per chi non fosse convinto, e comunque fosse orientato per l’omicidio colposo, trovo che il Paese sia del tutto incapace di affrontare questa situazione. Sono due esponenti militari e non ricevono il giusto trattamento. Nessun Paese lo potrebbe accettare. Per l’Italia la storia dei marò non è un’umiliazione, è una Caporetto.
Ma come se lo spiega questo vicolo cieco?
È la classe dirigente, politica e del istituzioni, che è del tutto inadeguata. E qui si vede il declino, generale, di tutto il Paese.
Torniamo alla guerra, allora. Cosa le ha insegnato?
Ho imparato ad apprezzare la normalità. A non lamentarmi troppo di quello che succede tutti i giorni. A tenere un occhio distante dal quotidiano, ridimensionarlo, pensare in modo diverso – più tranquillo, sulle cose da affrontare