Il fronte interno di Francesco
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Il grande scontro tra chi vorrebbe dare tutto il potere alle chiese locali (come piace, e molto, al Papa) e chi teme il grande caos. Ecco perché della grande riforma della curia, dopo due anni, non c’è ancora la bozza
di Matteo Matzuzzi | 12 Febbraio 2015 ore 20:00 Fpglio
Roma. Di certo c’è solo che prima di veder messa nero su bianco la riforma della curia romana passerà un altro Natale (e forse pure un’altra Quaresima). L’ha fatto intendere padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, al termine della mattinata di confronto concistoriale nell’Aula nuova del Sinodo (160 presenti su 227; in 25 hanno inviato la giustificazione scritta, ha precisato il decano, Angelo Sodano): “Non è che siamo con degli orizzonti di finalizzazioni imminenti di questo documento. Se deve essere maturato, studiato molto bene, anche dal punto di vista teologico e canonico, finalizzato bene in tutti i particolari. Quindi i tempi sono abbastanza consistenti, abbastanza lunghi”. Anche perché il documento tanto atteso, la bozza, la proposta finale che dovrebbe rivoluzionare la governance vaticana così come chiesto a gran voce dai cardinali durante le congregazioni generali del pre Conclave, non esiste. Ieri mattina il cardinale Oscar Rodríguez Maradiaga, coordinatore del consiglio della corona che aiuta il Papa nel governo della chiesa universale e studia la nuova costituzione apostolica, si è limitato a illustrare l’opera svolta dai nove porporati in quasi due anni di incontri. E’ stato il segretario dell’organismo, mons. Marcello Semeraro, a delineare i presupposti teologici ed ecclesiologici che sottendono il progetto cui si lavora. Allo stato, le uniche due novità sono quelle già da tempo note: l’istituzione di una congregazione che metta insieme carità, giustizia e pace (ma gli eminentissimi non sono d’accordo tra loro neppure sul fatto di dare precedenza alla carità piuttosto che alla giustizia nella definizione del nuovo organismo) e una che comprenda laici, famiglia e vita (dove per vita s’intende l’Accademia per la vita). Una posizione di rilievo avrà l’ecologia, cui sarà con ogni probabilità dedicato un ufficio creato ad hoc. Nulla s’è detto invece a proposito dell’idea del cardinale Gianfranco Ravasi di creare un maxi dicastero che metta insieme cultura, biblioteca, archivio, educazione cattolica, musei, accademia delle scienze sociali e perfino l’Osservatorio astronomico.
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Fin dalle prime battute è emerso il vero oggetto del contendere: la possibile devoluzione di poteri e competenze dalla curia romana alle conferenze episcopali nazionali. E’ su questo terreno che si gioca la partita chiave, che va ben al di là di un mero restyling alla struttura di governo vaticana. Niente di nuovo: si tratta della riproposizione dello scontro fraterno tra i cardinali Joseph Ratzinger e Walter Kasper sul peso e ruolo da dare alle chiese particolari, con il secondo che chiedeva una riforma che desse vita “a un governo orizzontale della chiesa per uscire dalle secche del centralismo romano”. Il cardinale prefetto della Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, aveva posto la questione al centro del suo intervento pubblicato qualche giorno fa sull’Osservatore Romano: “Favorire una giusta decentralizzazione non significa che alle conferenze episcopali viene attribuito più potere, ma solo che esse esercitano la genuina responsabilità loro spettante in base alla potestà episcopale di magistero e di governo dei loro membri, sempre naturalmente in unione con il primato del Papa e della chiesa romana”. Una risposta indiretta a quei settori (numerosi) dell’ecclesia universa che – per dirla con il cardinale Reinhard Marx – sentono soffiare “aria fresca”e sono pronti a fare “un sacco di lavoro teologico” anche se giurano di non avere intenzione di “creare una nuova chiesa”. A scanso di equivoci – padre Lombardi ha sottolineato che anche le sfumature lessicali sono entrate nel confronto concistoriale, tra chi auspicava una curia più “sinodale” e chi invece la voleva più “collegiale” – Müller ribadiva che “la chiesa universale non nasce come somma delle chiese particolari, né le chiese particolari sono mere succursali della chiesa universale” e che comunque “il primato è legato per sempre alla chiesa di Roma” e “il Papa non esercita il primato se non insieme alla chiesa romana”. Tutti concetti che il cardinale prefetto di quello che fu il Sant’Uffizio ha ribadito in Aula, tra i primi a prendere la parola (in mattinata sono stati solo dodici), ammonendo sul rischio di trasferire competenze in campo dottrinale alle chiese particolari. Si rischierebbe, fa intendere, un grande caos.
Il problema è che ad aprire la porta a quel trasferimento era stato il Papa in persona nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, promulgata nell’autunno del 2013. Già nel primo capitolo, infatti, Francesco scriveva che “anche il papato e le strutture centrali della chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello a una conversione pastorale. Il Concilio Vaticano II ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono ‘portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’. Ma questo auspicio – aggiungeva Bergoglio – non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della chiesa e la sua dinamica missionaria”. Questo scriveva Francesco in quello che egli stesso definiva, nell’introduzione, il testo base del suo pontificato: “Sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno”.