Così i tranelli statistici alimentano la retorica del povero
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SUD. I dati dell'Istat sui conti territoriali del 2013 non giustificano commenti pauperisti. Il pil va interpretato
di Francesco Forte | 11 Febbraio 2015 ore 12:55 Foglio
I dati resi noti dall’Istat sui conti economici territoriali del 2013 redatti con i nuovi criteri di calcolo del prodotto interno lordo (pil) adottati nell’estate del 2014, non giustificano affatto i commenti pauperisti che si scorgono sui media in questi giorni. Il pil va interpretato.
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Vediamo i dati grezzi. Il nord-ovest ha un pil pro capite di 33,5 mila euro; il nord-est di 31,4 mila euro e il centro di 29,4 mila. Il sud, con le isole, ha un pil pro capite di soli 17,2 mila euro. Il mezzogiorno, pertanto, ha un pil pro capite del 51 per cento inferiore di quello dell’area del paese con il pil pro capite più elevato. Ma la percentuale sale al 54,7 rispetto al nord-est e al 58,5 rispetto al centro. E’ vero, che, dunque, c’è un grande divario. Ma attenzione: questo è il pil a prezzi correnti. Esso non tiene conto in modo significativo dell’economia sommersa, né del divario nel potere di acquisto della moneta.
Il primo tipo di fattore, per definizione, è sfuggente. E i metodi che sono attualmente utilizzati per calcolarlo, ossia le interviste campionarie e il volume di denaro circolante, come indice di ricchezza, sono entrambi inficiati dal fatto che gli attori dell’economia sommersa sanno che si usano questi riferimenti per cercare di individuarli sia per le attività clandestine sia per la prestazione di beni per cui non si danno fatture o ricevute, né si fanno registrazioni. Gli incassi così ottenuti non vengono portati in banca. Facciamo l’ipotesi che nel sud l’economia sommersa non rilevata valga il 5 per cento del pil e nel centro-nord lo 0. Il diverso potere di acquisto della moneta può essere calcolato, ma l’Istat per un complesso di ragioni, non lo fa. Un indice dell’esistenza di un fattore di disturbo, dovuto all’economia sommersa non calcolata, emerge se consideriamo il divario fra il consumo pro capite, per il mezzogiorno di 12,5 mila euro contro 18,3 mila del centro-nord, ossia il 68 per cento. Chi lavora nell’economia sommersa spende gran parte del suo reddito nell’economia emersa. Ma è lecito supporre che una quota del reddito che consegue lo abbia in natura, ovvero mediante baratti, quindi non pare inappropriato aggiungere uno 0,2 come correttivo. Insomma, rispetto al centro-nord c’è un “lag” del 30 per cento nel pil destinato al consumo. Che però va corretto per il diverso potere di acquisto nel sud. Se lo calcoliamo in un altro 2 per cento, il divario si riduce al 28 per cento. Esso non va imputato solo all’economia sommersa, dipende anche dal diverso peso dei tributi e delle spese erogate, che dà luogo a trasferimento di reddito dal nord al sud. A questo punto entra in gioco un altro fattore, per cui il pil in moneta è ingannevole, ossia il grado di sviluppo degli scambi nelle diverse aree geografiche, in relazione alla diversa importanza dell’auto consumo. L’alloggio, nell’economia agricola, spesso fa parte integrante dell’azienda e una parte rilevante dell’alimentazione è auto consumo. Questo fattore, importante per il pil dell’Italia centrale, si accentua nel sud. Infine, nella considerazione del pil come indice di benessere, vi sono elementi paradossali che dipendono dai fattori eco-ambientali. Nel nord c’è una spesa maggiore per riscaldamento e illuminazione, dato il clima meno favorevole.
Osservato tutto ciò, il divario vero è la metà di quello che appare dal confronto grezzo. Esso è importante e dipende da vari fattori.
Ce n’è uno fondamentale che è la diversa percentuale di occupati sulla popolazione che, anche fatta la tara per l’economia sommersa, rimane drammatica. E che si spiega con il fatto che i livelli retributivi del sud non riflettono affatto il divario di pil grezzo del nord e neppure quello corretto. Infatti è di 32,6 mila euro in Sicilia e di 37,7 in Piemonte, ossia solo del 15 per cento inferiore. E’ chiaro che senza una contrattazione salariale decentrata, la politica del lavoro crea disoccupazione nel mezzogiorno.