I tanti falò umani islamisti che non ci scandalizzano
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I cristiani in Pakistan, gli americani di Falluja, gli ebrei israeliani. Bruciati vivi senza indignazione
di Giulio Meotti | 04 Febbraio 2015 ore 17:44 Foglio
In Giordania migliaia di persone sono scese in strada per ricordare il pilota ucciso dallo Stato islamico
Ormai l’Is è assurto a simbolo assoluto dell’orrore, esorcizzato in quanto “barbarie”, mica è vero islam. E nella classifica dell’orrore svetta adesso il rogo del soldato giordano, bruciato vivo nella sua gabbia, in filmato hd. La vittima perfetta. Un musulmano ucciso da altri musulmani, con i saggi di al Azhar che chiama a esemplari e raccapriccianti punizioni (come la crocefissione) per gli aguzzini del Califfato. Ma la stessa indignazione collettiva, lo stesso scoramento sulle prime pagine dei nostri giornali, lo stesso stupore non lo abbiamo visto per le vittime “sbagliate”, sbagliate per la loro identità e il luogo in cui si è consumato il rogo umano, di tanti altri falò islamisti.
Due mesi fa, nel Pakistan occidentalizzante, due giovani cristiani sono stati bruciati vivi, spinti con la forza in una fornace per mattoni da una folla inferocita di quattrocento persone che l’Is invidierebbe perché deve costringerla, la sua folla, ad assistere alle macabre esibizioni. I due cristiani erano sposati, avevano tre figli e Shama era anche incinta del quarto. Prima di loro ci sono stati i cinque cristiani bruciati vivi nell’isola di Giava, in Indonesia, dopo essere rimasti intrappolati in una chiesa cui una folla inferocita di migliaia di islamici aveva dato fuoco. E ancora i 42 studenti nigeriani bruciati vivi un anno fa nel rogo della scuola pubblica di Mamudo da parte degli apocalittici di Boko Haram. Ma questi cristiani trasformati in ceri umani non accendono editoriali, sono paria di cui l’occidente non vuole sentire parlare.
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E anche nel mondo islamico, i roghi umani spesso finiscono per anestetizzare le nostre coscienze, dagli slogan sui muri della Siria (“Assad o bruciamo tutto” dicono i lealisti di Damasco) al grande rogo di “infedeli” in Algeria, centinaia di persone arse vive negli anni Novanta, quando i terroristi islamici erano inebriati di sangue come gli inconsci attori di un girone infernale falstaffiano.
E quando nella primavera del 2004 quattro contractor americani furono bruciati vivi e impiccati alle travi di ferro sull’Eufrate davanti a una folla festante, per loro non soltanto ci fu indifferenza, in tanti godevano da noi nel vedere i loro resti, il glorioso popolo iracheno che si riappropriava del proprio destino, minacciato dalle baionette americane, dai quattro “mercenari” del Nord Carolina.
Quando si tratta di Israele, l’opinione pubblica si è scatenata sulle storie di civili palestinesi bruciati appositamente dalle bombe al fosforo di Tsahal, la cui esistenza sarebbe poi stata smentita. Facciamo finta di non vedere, anzi li sosteniamo e finanziamo, i palestinesi che dedicano strade e piazze di Nablus e Ramallah alla “martire Dalal Mughrabi”, la terrorista che guidò il commando che nel 1978 bruciò vivi, questa volta davvero, tredici bambini israeliani in un autobus sulla costa. O il pullman 830, in servizio tra Tel Aviv e Tiberiade, che all’incrocio di Megiddo prese fuoco per un kamikaze alla guida di una Renault carica di tritolo. Il bus brucia per un’ora. Diciassette israeliani furono arsi vivi. Un mese fa, una ragazzina israeliana è stata bruciata viva per un attacco terroristico in Samaria. Ayala Shapira ha combattuto fra la vita e la morte per un mese, e soltanto adesso sta recuperando. Per lei, neanche una riga. Forse perché era una “colona”? In Israele ci sono tanti bambini con il viso bruciato, le mani inutilizzabili, c’è gente impazzita e che ha detto di non vuole più vivere perché dice di sentire ancora l’odore di carne bruciata. Si arriva a Ilan Halimi, la prima vittima di questa nuova ondata di antisemitismo in Francia, un ragazzo rapito, torturato per due settimane e infine bruciato vivo in una squallida banlieue parigina.
Cristiani, americani, israeliani. Dei loro roghi umani non ci scandalizziamo mai. Per non dire di peggio.