Tramonta la trattativa stato-Riva per soccorrere l’Ilva
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Lettere e abboccamenti riservati finiscono in nulla, ora il governo arranca sulla via della nazionalizzazione
di Alberto Brambilla | 29 Gennaio 2015 ore 11:53 Foglio
Roma. Ieri è definitivamente tramontato l’estremo tentativo della famiglia Riva di accreditarsi presso l’esecutivo come co-protagonista del salvataggio dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Claudio Riva, presidente della holding Riva Fire, ha rinunciato a presentarsi in audizione davanti alle commissioni Industria e Ambiente del Senato trovando ormai vano il senso del suo intervento, ha scritto in una lettera che il Foglio ha ottenuto. Il figlio dello scomparso patron Emilio già la settimana scorsa aveva provato a proporre all’esecutivo un piano di ristrutturazione “pubblico-privato”, ma il governo ha tirato dritto procedendo con la messa in amministrazione straordinaria, un fallimento pilotato, dell’Ilva di cui i Riva sono tuttora proprietari, assieme agli Amenduni, per quanto estromessi dalla gestione da due anni. Il processo a carico dei Riva per disastro ambientale colposo non è ancora stato celebrato. Dall’inizio della vicenda giudiziaria che li ha travolti nel 2012 non sono mai stati consultati. Il loro piano resta ignoto.
Il governo dovrà proseguire nella temeraria strada della nazionalizzazione temporanea segnata con il decreto legge firmato dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 5 dicembre scorso, ora all’esame del Parlamento.
Nelle intenzioni del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, le finalità dell’intervento pubblico contemplano il risanamento ambientale e il rilancio industriale dello stabilimento da cedere poi a eventuali acquirenti con profitto. Per fare spazio all’azione governativa l’unico pretendente all’acquisto, il colosso ArcelorMittal, s’è defilato dopo mesi di trattative.
Per come stanno le cose il decreto può sembrare un salto nel buio: ha avviato l’amministrazione straordinaria in legge Marzano senza certezza di liquidità per i successivi step. E’ stato sottolineato da diversi esperti che il decreto soffre di vizi giuridici e pregiudizi di incostituzionalità – la gestazione è durata poco più di un mese – capaci di pregiudicare l’immediato stanziamento delle risorse indispensabili per mantenere in vita il siderurgico tarantino da cui dipendono anche Genova e Novi Ligure. I fondi per l’avviamento della Fintecna (150 milioni), holding di partecipazioni della defunta Iri, sono oggetto di un contenzioso tra governo e ministero dell’Ambiente che, costituitosi parte civile nel processo ai Riva, non vuole cederli alla gestione commissariale in quanto accantonati per risarcire danni ambientali dell’ex Italsider e non per la gestione ordinaria attuale: vorrebbe dire distrarli dalla funzione originaria. La Cassa depositi e prestiti che controlla Fintecna non vuole rischiare di pagare due volte: oggi per fare marciare l’Ilva e un domani per pagare i danni ambientali. La situazione insomma è critica sotto diversi aspetti.
Ieri i commissari governativi Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, hanno incontrato imprenditori e rappresentanti delle istituzioni tarantine. Lo stabilimento rischia lo stallo: i fornitori non confidano più nel risarcimento dei crediti vantati verso la gestione commissariale e sono in sciopero, si prospetta la cassa integrazione a rotazione per cinquemila addetti addetti Ilva, gli altiforni attivi lavorano a basso regime, il minerale di ferro scarseggia. Non è scontato che i nuovi strumenti finanziari messi in campo dal governo, su indicazione di Andrea Guerra, ex ad di Luxottica, consulente personale di Renzi, arrivino entro marzo, una deadline.
I protagonisti interpellati in sede di audizione parlamentare, in primis il commissario Piero Gnudi, confidano di ottenere almeno parte dei 1,2 miliardi sequestrati ai Riva in quanto frutto – secondo l’accusa – di frode fiscale ai danni dello stato: la parte più cospicua è custodita nella Ubs di Zurigo, la parte residua in banca Aletti a Milano. Sono finanze riconducibili al trust madre sito nel baliato di Jersey, paradiso fiscale sotto l’egida della corona britannica, blindato. Del difficoltoso recupero si sta occupando alacremente il procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, coordinatore del pool sui reati finanziari nonché consulente di Renzi dal febbraio scorso sul “dossier Svizzera” per il rimpatrio dei capitali e, a detta di due fonti differenti, consultato precedentemente l’annuncio del decreto Ilva del 24 dicembre. Lo stesso Greco, laborioso pm senza vezzi mediatici, ha però ammesso pubblicamente che il “nuovo testo, l’abbiamo letto e riletto ma non siamo riusciti a capire molto, ci sembra che manchino le condizioni, che prima c’erano, chieste dagli svizzeri per fare rientrare i capitali”. Ovvero che l’Ilva offra garanzie emettendo obbligazioni a favore delle banche per un pari ammontare – cosa improbabile – oppure che lo faccia lo stato rischiando però un richiamo ulteriore dalla Commissione europea per aiuti di stato; un avvertimento è già arrivato a novembre. Adriano Riva, fratello di Emilio e unico ereditiere delle sue sostanze liquide, ha infatti opposto ricorso in Cassazione contro il sequestro ritenendolo ingiustificato perché – è la tesi difensiva – insiste su denari già regolarmente scudati, dunque non evasi, impossibili da confiscare prima di una sentenza definitiva che potrebbe arrivare tra almeno tre anni.
Greco è esperto di partite delicate, con simpatie a sinistra, conciliatore – è stato l’esploratore di D’Alema a Palazzo di Giustizia per sondare la possibilità di una soluzione politica alla stagione delle manette di Mani pulite – ed è un giurista di riferimento nel milieu giudiziario milanese. I Riva hanno indirettamente tentato un appeasement verso Greco muovendo un pezzo da novanta della giustizia italiana, l’avvocato Guido Rossi, 83 anni, ovvero il maestro, mentore, nonché amico di lunga data del procuratore milanese.
Sarebbe frutto di questa tentata riconciliazione la proposta alternativa dei Riva per evitare l’amministrazione straordinaria con la proposta di un piano inedito, così come suggerito dallo stesso Rossi, riportano il Corriere della Sera e la Gazzetta del Mezzogiorno. Il governo, come si sa, ha chiuso la porta. La carta pesante di Rossi, da tempo consulente di Ilva ma tornato in auge nelle attuali circostanze eccezionali, per quanto avesse margini di successo risicati s’è rivelata del tutto inefficace. Ora la prospettiva, dal lato della famiglia di acciaieri, è quella di proseguire sulla via dei ricorsi legali con la non peregrina possibilità di ottenere cospicui risarcimenti dallo stato che, nella loro visione, li ha estromessi dalla proprietà senza indennizzo.