Stabilizzare o no?

La macroeconomia si trova di fronte a una sfida senza precedenti, ma se ne parla poco

di Ernesto Felli e Giovanni Tria | 30 Novembre 2014 F

Il dibattito di politica economica ristagna, così come l’economia reale sulla quale essa dovrebbe esercitare i suoi auspicabili effetti di stimolo. D’altra parte, il languore del dibattito riflette a sua volta la perdurante debolezza dell’azione di policy a livello europeo. Qui, la novità di questi giorni è l’annuncio della creazione del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi, secondo l’acronimo inglese), che dovrebbe supportare l’atteso programma da oltre trecento miliardi. In realtà si tratta di una leva finanziaria pubblica di 21 miliardi (16 di garanzie dal bilancio europeo e 5 di capitale dalla Bei). Secondo la Commissione europea questa leva dovrebbe ricreare l’ambiente favorevole agli investimenti privati e generare un imponente flusso di spesa per investimenti. In realtà, l’ammontare di questo flusso e l’ipotizzato spettacolare moltiplicatore (15) sono relativamente importanti in questa fase. Le questioni fondamentali sono due. Gli eventuali investimenti pubblici dei singoli stati entrano nel calcolo dei rispettivi deficit? E poi, quali sono i criteri di allocazione delle risorse all’interno dell’Unione europea? Perché è chiaro che, se l’eventuale spesa per questi investimenti non sarà esclusa dal calcolo del deficit, l’impatto iniziale sulle aspettative sarà limitato. E, d’altra parte, il Fondo non sarà di grande aiuto per sbloccare la situazione se le risorse pubbliche, eventualmente mobilitate anche grazie al contributo maggiore dei governi che hanno minori vincoli di bilancio, non saranno usate per affrontare le asimmetrie presenti all’interno dell’Unione e in particolare dell’Eurozona.

Staremo a vedere. Intanto, come si diceva, il dibattito langue. A livello politico e mediatico. A livello accademico, invece, c’è un certo fermento. La recente crisi economica e finanziaria ha mostrato, indipendentemente dalla natura e dalla prontezza delle diverse reazioni delle autorità monetarie e fiscali nei vari paesi, che le politiche di stabilizzazione hanno dei limiti. Sia quelle tradizionali sia quelle non convenzionali. La risposta iniziale di policy è stata una riduzione, più o meno rapida a seconda dei casi, dei tassi d’interesse, e un aumento sostanziale dei deficit strutturali. Così, i tassi di riferimento delle Banche centrali hanno raggiunto più o meno rapidamente il limite inferiore (“zero lower bound”), lasciando la politica monetaria senza le munizioni convenzionali, mentre gli ampi e crescenti debiti pubblici hanno spinto i governi a politiche di consolidamento fiscale, in Europa troppo radicali e ancora in atto. E d’altra parte, le misure monetarie non convenzionali, tentate con maggiore (Fed) o minore (Bce) decisione da parte delle principali Banche centrali, sebbene necessarie a riattivare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria e a stabilizzare il settore bancario-finanziario, hanno dato risultati complessivamente insufficienti a riportare rapidamente il reddito e l’occupazione sui livelli pre-crisi soprattutto in Europa. La politica macroeconomica si trova così di fronte a una sfida senza precedenti. Perché le scelte a disposizione sono limitate, da un lato dall’impossibilità di abbassare ulteriormente i tassi nominali d’interesse, e dall’altro dall’insostenibilità nel lungo andare di ulteriori significativi aumenti dei debiti pubblici (le riforme strutturali servono ma hanno effetti diluiti se non sono accompagnate da un persistente stimolo monetario, che però incontra i problemi detti).

Il tabù della monetizzazione del debito

Perché allora non pensare a una politica fiscale non convenzionale? O meglio, a un quantitative easing al servizio dello stimolo fiscale? Cioè, a un aumento transitorio della spesa pubblica interamente finanziato da creazione di moneta? In un paper recente (“The Effects of a Money-Financed Fiscal Stimulus”, Cepr, settembre 2014), Jordi Galí dell’Universitat Pompeu Fabra ha proposto qualcosa del genere. In base alle ipotesi descritte nel paper (un modello neokeynesiano e rilevanti rigidità di salari e prezzi nominali), una simile politica avrebbe effetti molto forti sull’attività economica, con contraccolpi inflazionistici moderati e distribuiti nel tempo, e con un rapporto debito-pil gradualmente declinante. Il risultato si spiega col fatto che, a causa della più elevata inflazione attesa, i tassi reali di interesse rimangono bassi a lungo e ciò fa aumentare consumi e investimenti e recedere il rapporto debito-pil. Nel caso di un’unione monetaria, questa politica avrebbe un ulteriore vantaggio: i programmi di spesa potrebbero essere mirati alle aree a maggior rischio di deflazione (o a bassa inflazione) e più elevata disoccupazione. Per inciso, questo è quello che si dovrebbe fare con il piano europeo per gli investimenti strategici, di cui si diceva in apertura.

Dunque a stare alle argomentazioni e ai risultati di Galí, il tabù della monetizzazione del debito non sarebbe un problema. Certo ci sarebbe da sfidare l’ortodossia e convincere i tedeschi – “vaste programme”, in effetti.

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