Chi si mena per il Quirinale. Nomi, spin, candidati, storie

e metodi. Orientarsi sul dopo Napolitano. Manuale anti veline

di Claudio Cerasa | 20 Novembre 2014 Foglio

Nella Repubblica delle veline, dove lo spin viene spesso confuso con le notizie e dove le soffiate vengono spesso trasformate in straordinerie inchieste giornalistiche, l’unico modo per orientarsi tra mille spifferi è quello di raccontare da chi arrivano le veline e soprattutto perché al cronista arriva una velina invece che un’altra. Nell’èra del governo Leopolda, dove la velocità delle notizie tende più a depistare che a informare, il regno magico dello spin diventerà presto il terreno legato alla successione di Giorgio Napolitano. Intorno alla scelta del prossimo capo dello stato, le voci che girano si presentano il più delle volte in forme incontrollate stile “Secondo tragico Fantozzi” (“Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l’Italia stava vincendo per 20 a 0 e che aveva segnato anche Zoff di testa, su calcio d’angolo…”). E così, per provare a orientarci su quella che sarà la partita politicamente più appassionante del 2015, vi proponiamo un piccolo manuale anti velina. Per capire perché nelle prossime settimane vi ritroverete spesso a dover fare i conti con alcuni di questi nomi associati al dopo Napolitano.

Paolo Gentiloni. Più che un nome, è diventato un metodo. E stando al metodo, il nome “Gentiloni” contiene tutta l’essenza delle candidature renziane. Un volto non troppo conosciuto, non troppo di sinistra, molto cattolico, molto leale, molto di fiducia, molto di famiglia, molto elegante, persino competente, che esce fuori dal cilindro quando gli altri nomi sono stati abilmente bruciati e quando le mediazioni sono arrivate al loro termine. Funziona così: prima propongo un candidato ganzississimo e giovanissimo, più o meno minorenne, che piace tanto alla gente che piace (possibilmente donna). Poi mi confronto con il mio interlocutore e propongo un candidato poco più che maggiorenne (e possibilmente donna) che non ha però nessuna possibilità di essere. Insisto. Faccio finta di essere irremovibile. E quando il mio interlocutore è sfinito – taaac – piazzo il mio candidato a sorpresa. Con il ministero degli Esteri è andata così (e Gentiloni, si scopre oggi, era da sempre la prima scelta di Renzi). E con il Quirinale, nei piani di Renzi, dovrebbe andare allo stesso modo. Con lo stesso metodo. E magari, come comincia a dire chi nel governo ha buona consuetudine con i dossier legati a nomine e candidature, anche con lo stesso nome. Francesco Bei di Repubblica è stato il primo a notare sabato scorso che la presenza di Andrea Guerra in Australia con Renzi potrebbe essere legata al fatto che il presidente del Consiglio si sta già muovendo per trovare un possibile sostituto nel caso Gentiloni dovesse fare un passo verso l’alto. La voce gira e non è campata in aria. Gentiloni piace fuori dal Pd, non dispiace al gruppo del Pd, potrebbe avere qualche problema con il gruppo bersaniano (che ha sempre maltrattato ai tempi della segreteria Bersani), ma nella logica di Renzi è il candidato tipo (anche in previsione di possibili elezioni anticipate). E la tappa al ministero degli Esteri, dice la velina del giro renziano, potrebbe essere anche un modo per far conoscere Gentiloni un po’ di più all’estero. In Europa. In Germania. E soprattutto in America. Dove il ministro, in tempo per il discorso di fine anno di Napolitano, dovrebbe incontrare entro la fine dell’anno l’Amministrazione Obama. Chissà.

Anna Finocchiaro. Con Anna Finocchiaro la formula adottata dai renziani è quello della profumiera. Lasciare intendere che. Fare immaginare che. Non escludere che. Fare in modo che lei capisca che. Anna Finocchiaro, oggi, ha un ruolo strategico nel Pd: al Senato, è la presidente della commissione Affari costituzionali, e le più importanti riforme del governo Renzi passano da qui. La legge elettorale (di cui ora è relatrice a Palazzo Madama). La riforma del Senato. La riforma del Titolo V. La riduzione del numero dei parlamentari (tutti provvedimenti, questi ultimi già approvati nel regno Finocchiaro). A questa commissione Renzi tiene in modo particolare (do you remember mister Corradino Mineo?) e il messaggio che il presidente del Consiglio ha chiesto di far arrivare da tempo alla signora in rosso è più o meno il seguente: fatele credere che ci sia anche una minima, microscopica, possibilità che il suo nome sia nella rosa e vedrete che Anna nostra mostrerà il suo lato più tenero, e più umano. Finocchiaro (che piace tanto a Forza Italia e alla Lega di rito maroniano) sa di non avere grandi possibilità di andare al Quirinale, non fosse altro che un anno e mezzo fa, quando il nome Finocchiaro finì nella rosa di Bersani, fu proprio Renzi a rottamarla a reti unificate, ricordando la famosa foto all’Ikea (con scorta) della signora Anna (che replicò all’attacco definendo Renzi “un miserabile”). Finocchiaro dunque non ci crede ma clamorosamente – la velina arriva da qui – ci credono i senatori e i deputati del Pd di rito post dalemiano e post bersaniano (area Cuperlo, area Speranza). Ragionamento: “E’ l’unica donna spendibile e se la situazione dovesse incartarsi Anna eccome se torna in campo”. Numero di veline recenti e attendibili ricevute sul nome Finocchiaro: due. Pazza Ikea.

Walter Veltroni. Un imprenditore amico di Walter Veltroni e di Giorgio Napolitano racconta che una mattina di qualche mese fa il presidente del Consiglio, durante un colloquio privato con il presidente della Repubblica, ragionando sul possibile prossimo inquilino del Quirinale, ha esposto a Re George non la lista di coloro che il Rottamatore vorrebbe candidare ma la lista di coloro che direttamente o indirettamente hanno fatto arrivare la propria candidatura a Palazzo Chigi. Renzi ha aperto la mano e ha elencato cinque nomi: Pinotti, Fassino, Franceschini, Prodi e, testuale, “persino Veltroni”. In quel “persino” c’è tutta la storia della candidatura dell’ex segretario Pd. Candidatura, e autocandidatura, che Veltroni smentisce (e bisogna credergli) ma che in teoria avrebbe tutte le carte in regola per essere in campo: ex sindaco, ex segretario del Pd, precursore del Patto del Nazareno, apprezzato da una buona parte del Pd (anche dai popolari), apprezzato dal centro, apprezzato da Forza Italia, coccolato dal partito trasversale della Cultura, portato in adorazione dal partito di Fandango, apprezzato dal presidente della Repubblica. Ma, problemino, non amato troppo da Renzi e dal suo giro fiorentino: non vedono in lui la persona giusta con cui il presidente del Consiglio possa veder riflessa anche la sua immagine al Quirinale e quando pensano all’ex sindaco, intimamente, pensano la stessa cosa che Renzi disse a Firenze nel settembre 2012: “Veltroni? Direi che i successi maggiori li ha avuti come romanziere, gli auguro tanti romanzi belli per il futuro”. Le veline sulla candidatura di W. arrivano soprattutto dal vecchio Pd romano. Dall’establishment legato anche per affetto all’ex sindaco di Roma. Ma quando si parla di Veltroni a Palazzo Chigi in molti ammettono che il nome potrebbe spuntare fuori all’improvviso anche se (versione renziana) in realtà l’unica presidenza per la quale Walter ha speranza oggi non si chiama Colle ma si chiama Rai. Numero di veline ricevute nell’ultimo mese su Veltroni al Quirinale: dieci. Numero di veline attendibili ricevute nell’ultimo mese su Veltroni al Quirinale: mezza.

In teoria Graziano Delrio, almeno sulla carta, è un candidato quasi perfetto dell’èra Renzi. E’ un ex sindaco, il che non guasta. E’ renziano della prima ora, il che non guasta. E’ cattolico, il che non guasta (anche per le gerarchie vaticane). Non ha nemici nel Pd, il che non guasta. E’ apprezzato da molti vecchi del Pd (da Prodi a Marini), e non è male. E’ il punto di riferimento a Palazzo Chigi dei renziani della prima ora, e il che non guasta. E’ amato da Napolitano, e il che aiuta. E’ il punto di riferimento dell’Anci, di cui era presidente fino a due anni fa (e nel governo l’Anci conta, eccome se conta: chiedere ad Angelo Rughetti). E’ espressione di una serie di equilibri di potere presenti anche nella sua regione natale (che è l’Emilia Romagna, regione da cui proviene un decimo dei parlamentari del Pd, 41 su 407). E’ fedele e leale con il presidente del Consiglio (anche se a Palazzo Chigi non è mai entrato in sintonia con il braccio destro di Renzi, Luca Lotti, il che non è poco). Piace alla minoranza del Pd (chiedere a Cuperlo, a Orfini, a Zingaretti). Suscita simpatia (non manifesta) anche nel Movimento 5 stelle (in Emilia Romagna Delrio ha buoni rapporti con diversi interlocutori grillini). Ed è considerato uno dei pochi renziani che avrebbe gli strumenti per proteggersi dalla carica dei 101. La velina “Delrio” non arriva da Palazzo Chigi ma dai renziani presenti nei gruppi parlamentari del Pd, e meno coinvolti nel governo. Nel gruppo alla Camera sponsor massimo di Delrio è Matteo Richetti, che sul gruppo renziano (51 esponenti, tra Camera e Senato) ha un grande ascendente. Come tutte le ipotesi possibili, lo spin sulla candidatura di Delrio è inversamente proporzionale alle chance del candidato. Numero di veline attendibili ricevute nell’ultimo mese su Delrio al Quirinale: una. Il percorso c’è. E i groupie del sottosegretario sono al lavoro.

Dario Franceschini. Le premesse in fondo ci sono tutte e se nel Partito democratico c’è una certezza è che Dario Franceschini, tatticamente, non ha mai sbagliato una mossa in vita sua. Renzi, scherzando, ogni tanto ricorda che “nel Pd si dice che c’è maggioranza dove c’è Franceschini” e questa volta la maggioranza silenziosa che l’ex segretario del Pd e attuale ministro dei Beni culturali sta provando a sondare e a verificare è quella relativa alla base potenziale che potrebbe avere la sua candidatura al Quirinale. Il consenso di Forza Italia c’è, ed è buono (e nel centrodestra tutti ricordano che fu Franceschini uno dei primi dirigenti Pd che suggerì a Bersani di rottamare l’idea del governo con i 5 stelle e di rivolgersi direttamente al Pdl). Ma quello che manca è, in generale, il consenso nel Pd. E le giravolte politiche contestate al ministro (a Franceschini riproveranno di essere passato, con discreta prontezza di riflessi, dal marinismo al dalemismo, dal dalemismo al veltronismo, dal veltronismo al bersanismo, dal bersanismo al lettismo, dal lettismo al renzismo) potrebbero prestare il fianco dell’ex segretario al fuoco amico. Franceschini sa che non potrà essere mai la prima scelta di Renzi ma sa anche che nella girandola dei nomi il suo c’è e per questo si attrezza e prova anche lui a costruire il profilo di perfetta riserva della repubblica. E così decide di comunicare a Renzi di aver sciolto la sua corrente (Area Dem, corrente che Franceschini gestisce con Fassino, non si riunisce dai tempi del governo Letta). E così decide di rilasciare interviste legate solo al suo stretto ambito ministeriale (tranne un’eccezione con Repubblica e una con Fazio). La velina sul nome di Franceschini viene dai nemici di Franceschini (ex Ds) che sperano oggi di poter giocare con il suo nome per lanciare il proprio candidato (un professionista della tattica sa che la possibilità di raggiungere un obiettivo è inversamente proporzionale al numero di volte che il tuo nome viene associato a quell’obiettivo). Franceschini ci scherza su. Dice che “è solo un gioco”. Ma come dicono a Palazzo Chigi, “se Dario fosse donna sarebbe già al Quirinale”. Diventare donna non sarà semplice neanche per un mago della tattica come Franceschini. Ma tagliare la barba, quanto meno, potrebbe essere un messaggio per indicare una giusta direzione.

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