Partecipata municipalizzata addio? Elogi liberisti
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(e qualche dubbio) sul possibile assedio renziano
alle municipalizzate e ai loro commis
di Alberto Brambilla | 28 Agosto 2014 ore 14:30
Roma. Decidere cosa tagliare e come farlo è una scelta politica, ha detto ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in un’intervista al Corriere della Sera. Uno dei “terreni propizi per un’opera di razionalizzazione – disse a inizio agosto alla presentazione del decreto sblocca Italia – è quello delle partecipate”. Opera d’impatto sui potentati locali che in questi anni hanno contribuito al dissesto di almeno un terzo delle municipalizzate italiane.
Secondo gli annunci del governo, in attesa del Cdm di venerdì che darà allo sblocca Italia i crismi dell’ufficialità, le municipalizzate volgono a una riforma drastica e complessiva scaturita dalle indagini del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Nell’architettura del disboscamento, secondo indiscrezioni, ci sarebbero elementi di novità significativi. Il più rilevante è la possibilità di prevedere il fallimento delle società in perdita. Sono almeno 1.250 su 8.000 censite (un numero certo non esiste, alcune non hanno registrato i bilanci 2012). Secondo Cottarelli, anche attraverso altre chiusure, cessioni e privatizzazioni, nei prossimi tre anni si potrà arrivare ad averne solo un migliaio, come in Francia, con un ritorno per lo stato di 2-3 miliardi. Risorse provvidenziali a coprire i costi per il rilancio dei progetti infrastrutturali rimasti fermi, il fulcro del maxiprovvedimento sblocca Italia. La chiusura di aziende inefficienti è spesso obbligata, visti i bilanci malandati: in cinquemila organismi privati e partecipati dagli enti locali l’indebitamento complessivo è di 34 miliardi, dice la Corte dei Conti. Per quelle in attivo la privatizzazione o la vendita di quote in Borsa invece è possibile. Per incentivare i comuni a vendere è allo studio del governo l’eventualità di non conteggiare i proventi della vendita ai fini del patto di stabilità interno. Mentre verranno prorogate le concessioni (fino a 22 anni, dice il Corriere) in caso di sbarco a Piazza Affari.
Le intenzioni pragmatiche del governo hanno già riscosso consensi dagli economisti più liberisti, sebbene con qualche avvertenza.
Tra Padoan e Cottarelli. Cosa funziona e cosa no nel dispotismo democratico di Renzi “Se il governo riuscisse davvero a confermare le proposte annunciate e a renderle operative, sarebbe un segnale di concretezza nella svolta per un sistema più efficiente delle risorse pubbliche e più aperto ai benefici della concorrenza”, dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Anche i compromessi cui si potrebbe giungere in corso d’opera per arrivare all’obiettivo di riportare all’efficienza aziende di pubblica utilità sono in parte indice di pragmatismo, dice Sileoni. Ad esempio, la mancanza di un’esplicita scelta di aprire alla concorrenza i servizi pubblici e quindi lasciare la gestione diretta solo come ipotesi eccezionale deriva probabilmente dalla volontà di non contraddire il risultato referendario del 2011, quello sull’acqua pubblica. Oppure l’intenzione di mantenere la concessione anche in caso di fusione o acquisizione societaria. “Specie nel periodo transitorio, i compromessi sono una costante di ogni piccola o grande riforma, ma se le proroghe e le deroghe dovessero essere sproporzionate rispetto alle necessità della transizione, e si spera in particolare che sia smentita la possibilità di allungare la concessione per le società quotate, non faranno altro che smentire gli obiettivi governativi”, aggiunge Sileoni. Per ora le aspettative sono alte. Finora si è intervenuti in modo “astratto e inefficace”, per usare le parole del presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, attraverso la richiesta ai comuni di liquidare società in perdita a una certa data di scadenza. Il riferimento è alla legge di stabilità del 2010 che imponeva ai comuni con 30 mila abitanti di liquidare o cedere entro il settembre 2013 le loro partecipazioni. Finora delle 1.472 società interessate solo un quinto risulta in liquidazione, dice il Cerved. Il motivo di fondo è che attorno alle municipalizzate ruotano interessi politici che si esplicitano attraverso l’assegnazione di incarichi nei cda, un numero di cariche che spesso supera quello dei dipendenti. L’affollamento è una degenerazione: con le privatizzazioni degli anni Novanta è stato tolto il pane di bocca alla politica che si è rifatta su scala locale. La possibilità di incidere e sfrondare è autoevidente soprattutto in quelle società che si dedicano a servizi collaterali (consulenza gestionale, pubbliche relazioni, organizzazione eventi) con attivi scarsi e che sono di discutibile utilità.
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