Chi preferiva Pietro Secchia. Appunti sull’irrealismo
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della sinistra
di Sergio Soave | 25 Agosto 2014 ore 10:27
Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Palmiro Togliatti è stato ricordato in tono minore con una cerimonia che ha visto il Guardasigilli Andrea Orlando, accompagnato da Emanuele Macaluso e Ugo Sposetti rendere omaggio alla sua tomba. La rimozione della figura di Togliatti, così evidente nell’intellettualità di sinistra ora prevalente, nasce forse proprio da una sorta di disprezzo per il ruolo giocato dal realismo togliattiano nella definizione della dialettica democratica e che ha caratterizzato la storia della Repubblica. Quel realismo, al quale una lunga storia delle sinistre ha preferito il radicalismo “rivoluzionario” di cui fu interprete l’antagonista di Togliatti all’interno del Pci, Pietro Secchia.
In sostanza le tesi della “resistenza tradita” furono uno degli ingredienti della contestazione sessantottesca, insieme alla polemica nei confronti del “revisionismo”, non a caso avviata da un celebre articolo pubblicato dal quotidiano dei comunisti cinesi “sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”. Dietro alla liquidazione della figura di Togliatti come stalinista (come fu indubbiamente) in molti casi c’è l’eco di una critica “da sinistra”, simile appunto a quella di Secchia, che però non ottenne udienza proprio da Giuseppe Stalin, quando chiese al capo del Cremlino, l’autorizzazione a combattere apertamente il segretario del Pci con l’obiettivo di sostituirlo.
Nel sistema sovietico, nel quale credeva, Togliatti seppe, anche passando per prove assai dure e con una dose consistente di cinismo, ritagliarsi uno spazio di autonomia, un ruolo effettivamente dirigente, a differenza di altri, magari più “rivoluzionari” che seppero agire solo come cortigiani subalterni. Il caso più clamoroso si ebbe quando tutto il gruppo dirigente del Pci accolse la richiesta di Stalin di “promuovere” Togliatti alla direzione del Comintern con sede a Praga, cui solo Togliatti stesso seppe resistere (e resistere al volere di Stalin senza finire massacrati non era da tutti). Se è vero che la vicenda politica di Togliatti si svolse tutta nell’orbita sovietica non si può negare che seppure in quell’ambito Togliatti seppe svolgere una politica originale. Sarebbe interessante indagare, per esempio, sull’incoraggiamento che venne dal Pci alla denuncia albanese dell’egemonismo del maresciallo Tito nei Balcani, che portò alla scomunica staliniana della Lega dei comunisti yugoslavi che ebbe anche la conseguenza non secondaria di consentire a Togliatti di gestire una posizione autonoma sulla questione di Trieste. D’altra parte Togliatti era stato interventista allo scoppio della Prima guerra mondiale e non smentì mai quella scelta, tanto che quando il partito gli dedicò una pubblicazione in occasione del sessantesimo compleanno, volle che vi apparisse anche la sua fotografia in divisa da volontario alpino. D’altra parte l’eco che ebbe in Urss il suo memoriale scritto a Yalta negli ultimi giorni di vita, in cui si criticava apertamente la politica krusceviana, fu certamente rilevante e forse non è un caso che Leonid Breznev, dopo aver pronunciato il discorso funebre al funerale di Togliatti, nel giro di pochi mesi mise fuori gioco il segretario del Pcus al quale Togliatti aveva espresso le sue riserve (destinate a rimanere riservate).
Togliatti sapeva trovare le vie per esercitare un’influenza politica reale, anche nelle condizioni più difficili, seppe sempre far prevalere questo obiettivo sull’esibizione propagandistica e sulla fraseologia rivoluzionaria. L’amnistia, il voto a favore dell’inserimento del Concordato nella Costituzione, l’appello a tenere i nervi saldi anche quando fu vittima di un attentato che innescava una spirale di reazioni che avrebbero potuto arrivare a esiti incontrollabili, la costante battaglia contro l’estremismo parolaio e la rivendicazione dell’eredità del riformismo socialista della valle Padana, sono tutti elementi di una personalità politica che non ha acceso gli entusiasmi tra gli intellettuali che nel ’68 si sono ribellati non senza qualche ragione alla egemonia culturale del Pci, ma ha ottenuto risultati che non è giusto cancellare. Che questo non piaccia a chi avrebbe preferito l’antagonismo roccioso di Pietro Secchia è comprensibile, ma è penoso constatare che quel discredito del realismo, che provocò sciagure spaventose, come ad esempio quella che concluse la vicenda umana di Giangiacomo Feltrinelli, dopo essere diventata egemone del sessantottismo, continui a esercitare la sua influenza distorsiva anche oggi, quando non c’è nessuna egemonia culturale del Pci da cui liberarsi, a distanza di tanto tempo, magari per sostenere improbabili svolte “a sinistra” da operare in connubio con i nuovo qualunquisti organizzati attorno a Beppe Grillo.
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