Basta con l’autogestione dei burocrati

Renzi Vs. Pa. L’autoriforma? E’ un’illusione.

 Il conflitto è necessario

di Marco Valerio Lo Prete | 20 Giugno 2014 ore 06:27

Roma. “Il deficit è grande a sufficienza per badare a se stesso”. Che davvero lo abbia detto o no, Ronald Reagan sicuramente lo pensava. Il presidente degli Stati Uniti era convinto che i problemi dei conti pubblici si sarebbero comunque risolti, quasi naturalmente e senza interventi ad hoc, a patto di raggiungere ritmi di crescita del pil più sostenuti. Oggi, con un parallelo ardito, si può sostenere che in Italia cresce il partito dei “reaganiani” sulla Pubblica amministrazione. Non si tratta di liberisti, ben inteso, ma di quanti ritengono che la classe politica andrà pure rottamata, l’economia necessiterà pure di riforme, ma la burocrazia è un discorso a parte. La Pa è grande a sufficienza per badare a se stessa, per autoriformarsi senza interventi esterni ad hoc che nascondono velleità d’asservimento alla politica. Questa la tesi degli avversari più radicali della riforma della Pa avviata dal governo Renzi nel Consiglio dei ministri di venerdì scorso e di cui oggi si attende il testo definitivo in Gazzetta Ufficiale. Avversari come Guido Viale per esempio, intellettuale ed editorialista del Manifesto, il cui pensiero non coincide esattamente col tentativo ostruzionistico dei sindacati. Viale, sul Manifesto di mercoledì scorso, ha detto che il governo Renzi sta riservando il solito “bastone” ai dipendenti pubblici. Dopodiché ha proposto alcune considerazioni. La prima: misurare la produttività del settore pubblico è compito arduo, soprattutto se non si tiene conto che “a ridurre il valore aggiunto” del lavoro dei travet concorrono tangenti, urbanizzazione selvaggia e altri fattori che “dipendono dalla politica”. Si fonda perciò su false premesse “il dogma che privato è efficiente e pubblico no”. Come dimostrerebbero anche recenti fatti di cronaca (vedi lo statuto privato del Consorzio Venezia Nuova), “l’alternativa non è tra pubblico e privato; è tra pubblico e privato, da un lato, e comune, cioè trasparente e partecipato, dall’altro”. Altra considerazione di Viale: i criteri di competizione e meritocrazia, con corollari come la possibilità di licenziare, non si adattano alla Pa. “Chi decide del merito? La gerarchia, cioè chi si trova già ‘al di sopra’; e non per merito, ma per qualche altro motivo”. Infine associare la riforma a obiettivi di contenimento della spesa pubblica equivarrà a “tagliare i servizi per ripagare debito pubblico”. “Come uscirne?”, si chiede Viale. Con la “partecipazione” dei dipendenti, “ufficio per ufficio, in un confronto aperto con gli utenti”, per “entrare nel merito di come deve essere organizzato e funzionare il loro servizio”. “Un’opera di autoeducazione alla condivisione delle responsabilità e un presupposto essenziale per rifondare dal basso la democrazia. (…) Utopia? No”. E in effetti più che alla “utopia” siamo al “già visto”. Viale usa toni evocativi, ma in fondo descrive la realtà di una Pa che, emancipatasi dal principio gerarchico di matrice cavouriana, da anni non accetta correttivi di sorta: né una parziale privatizzazione del rapporto di impiego, né una più temuta responsabilizzazione di fronte ai cittadini.

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