E adesso, Susanna? L’irrilevanza della Cgil

mollata pure da Squinzi. Serve un’autocritica

La prima volta in cui un partito della  sinistra italiana supera in una elezionre la soglia del 40 per cento, coincide con la prima volta in cui quel partito ha affrontato il giudizio dei cittadini elettori nel bel mezzo di una polemica esplicita con la Cgil, il sindacato che era considerato finora il principale serbatoio di voti della sinistra. Gli elettori, con ogni evidenza compresi quelli delle famiglie di lavoratori dipendenti e di pensionati, hanno premiato il distacco – per ora annunciato, ma finalmente con parole sonanti – di Matteo Renzi dai rituali della concertazione paralizzante invocati da Susanna Camusso. La Cgil, che aveva appena celebrato un congresso assolutamente inutile e ininfluente, è rimasta completamente spiazzata e ora i suoi appelli ai parlamentari democratici affinché sabotino le riforme proposte dal governo sui temi del lavoro e dell’economia (ma non solo, c’è in ballo “la democrazia”) appaiono addirittura patetici.

Sull’altro versante, la controparte incestuosa della Cgil, la Confindustria che aveva spalleggiato più o meno esplicitamente il muro di gomma antiriformista del sindacato, ha fatto una rapidissima svolta a U, passando armi e bagali al seguito del vincitore delle elezioni. Giorgio Squinzi può essersi attardato nella logica concertativa, ma ora è stato rapidissimo nel gettarla a mare come una zavorra inservibile. Anche questo sottolinea l’isolamento della Cgil, che sembra scomparsa dal dibattito pubblico, nel quale in passato imperversava a ogni occasione, a proposito e a sproposito. D’altra parte le esperienze più durature della sinistra di governo europea sono nate dall’esplicita separazione delle scelte politiche innovative dalla richiesta dei sindacati “di classe” di una restaurazione di condizioni superate. François Mitterrand ruppe con la Cgt, Tony Blair ha contrastato le Unions, Felipe González fu contestato da numerosi scioperi generali. A Renzi, per la verità, non è stata necessaria una battaglia, per ora è bastata qualche battuta, forse perché ormai la fragilità del gigante sindacale dai piedi d’argilla era evidente a tutti. C’è solo da sperare che il silenzio imbarazzato di questi giorni sia il sintomo di una cosciente autocritica, dell’avvio di una riflessione seria come quella che avviò Giuseppe Di Vittorio dopo la sconfitta della Cgil nelle elezioni interne alla Fiat: una lezione di sessant’anni fa che però sembra attualissima.

IL Foglio, 31 maggio 2014 - ore 15:30 

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